il gioiello sul fiore di loto
- Monica
- 15 mag 2018
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 29 ott 2020

Quando puoi toccare il cielo con un dito ed essere più vicino a Dio - senza echi di joloha hihu, orde di colorati turisti e montagne squarciate da impianti di risalita - allora, quella montagna piace anche a me.
You don’t have to climb a mountain in Nepal to experience the beauty of the country. There is something indescribably delightful in just wandering the countryside with a small party, the great mountains towering above you.
Così scrive Takehide Kazami nel lontano 1960. Penso non molto sia cambiato.

Un orizzonte di montagne che puoi sentire, anche se lontane. Non incutono timore né reverenza, sembra invece ti appartengano. Lontane, ma presenti. Mai provato nulla di simile nelle nostre pur bellissime Alpi, alle basse quote, prive di contesto, assenti di pace, di tregua, di mistico.
Non baite, ma monasteri; non ricchezza ostentata, ma povertà dignitosa.
E così ho trovato gente bella, con la fisicità della misera e un’autenticità che non appartiene a noi occidentali.
The back streets of Kathmandu are a fascinating jumble of old houses, with elegantly carved figures on their wooden posts and windowsills. I used to love to wander through these lanes, glutting my eyes on the beauty of lines and colors. Once, when I was talking to Yamagawa, the artist, we both agreed that the back streets of Kathmandu were more exciting than those of Paris. Then we had to confess to each other that neither of us had ever been to Paris – and dissolved into laughter at the nonsense that we’d been talking…

Appunto… Kathmandu, la strana città ombelico del mondo, rifugio dei fricchettoni degli anni ’60, che all’inizio ti si propone come contraddizione, ma che contraddizione non è. Una città troppo chiassosa, invadentemente caotica, ma che scopri a poco a poco, con stupore, incamminandoti tra le sue strade: gli ampi vialoni ingarbugliati e follemente inquinati dallo smog dei tubi di scarico, le piccole stradine sovraffollate da una moltitudine variegata. La vita chiassosa di strada: artigiani, commercianti, facchini, gente affaccendata, che sbuca dagli androni, e affolla la via.
Mi sembra di essere dentro uno di quei film sulla guerra in Vietnam, la presa di Saigon... l’anarchia più totale, che rasenta il surreale: scooter e moto si incastrano tra auto scassate in un concerto continuo di strombazzi su strade e stradine sconnesse e polverose e, incredibilmente, non si toccano e non ti toccano… perché il marciapiede non esiste e la gente, comunque, non può che buttarsi in mezzo a tale baraonda per attraversare la strada. In confronto, Napoli e Il Cairo sono la Svizzera.
Ma poi, inaspettato, scopri un tempio - piccolo o grande - un tempio a cielo aperto, che si apre improvviso in mezzo a questa bolgia. La gente entra e prega.
Chi cammina con me in questa sorta di sogno, mi fa notare che anche noi abbiamo chiese sparse a ogni angolo di strada, ma qui la spiritualità è esterna, viscerale, è una macchia di colore, è il suono delle campane di preghiera.
Fiori, petali, riso, carta straccia dell’incenso bruciato, buttata per terra, tra odore e fumo, fuochi e ceneri, miscuglio di gente dai visi diversi, dalle facce scure o prettamente asiatiche, induisti e buddisti; induisti e buddisti pregano insieme nello stesso tempio… pregano lo stesso Dio, che poi è diverso, un po’ diverso, molto diverso, poco importa, Dio, quanto c’è da imparare! Ho visto gente entrare al tempio dopo il lavoro, con la cartella dell’ufficio… noi abbiamo l’happy hour, loro hanno la sosta al tempio. Non vuole essere una mera constatazione sulla religione, bensì su un modus vivendi.
E poi, il girotondo della vita, che da occidentale facevo fatica a scovare, ma che inesorabilmente mi attrae sempre di più. Ashes to ashes: la capacità di trascendere il fisico, il muro del pianto dei nostri cimiteri, dove regna tristezza e dolore; l’immensità dei loro… il fiume, la comunione con la natura nel ciclo della vita che si rinnova. Il distacco dal corporeo, dalla fisicità, da noi venerata anche dopo la morte. Non mi interessa la reincarnazione, bensì la convivenza con l’essenza.
La mia guida nepalese mi raccontava che sull’Himalaya, dove non c’è corso d’acqua in cui buttare le ceneri, le membra vengono sezionate e date in pasto ai rapaci. Ciò che mi appare così terribilmente crudo, incomprensibile e ripugnante, mi apre altri spazi della mente.
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