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Fino al tramonto

  • Immagine del redattore: Monica
    Monica
  • 8 lug 2021
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 6 dic 2022



“Prendilo, prendilo.” “E’ andato di là.” “Presto, corriamo.” Il gatto deviò verso sinistra, sgusciò tra due auto in sosta, e prese di corsa la via dell’ampio campo incolto, che si apriva ai margini del quartiere, verso il terrapieno della ferrovia. Il nugolo di bambini urlanti si fermò trafelato… ormai non lo avrebbero più raggiunto: nello spazio aperto, tra l’erba alta, sarebbe corso molto più veloce di loro. Matì era il gattino del quartiere: un randagio tigrato, le striature nere sul folto pelo marrone chiaro e due occhietti verdi e vispi, su un simpatico musetto da monello. Le coccole non le disdegnava, due miagolii, due strusciate sulle gambe ma, quando diventava troppo, e succedeva spesso, prendeva e se ne andava. Per questo era stato adottato dai bambini del quartiere tra i tanti randagi che vagavano in zona e che, al contrario, non ne volevano proprio di farsi avvicinare da diavoletti schiamazzanti. Quel pomeriggio di mezza primavera, Antonella e Dani rimasero nel campo, in cerca di Matì. Salirono sul rudere di una casupola diroccata e si sedettero gambe ciondoloni. “Aspetta Dani, vedrai che torna fuori… da quassù lo vediamo meglio.” E non passò molto che Matì riapparve: le bambine in lontananza scorsero la sua sagoma. “E’ laggiù! Presto andiamo”, urlò Antonella. Saltarono giù dal muretto, e via di corsa dietro al gatto. Matì fece un ampio giro e ritornò sui suoi passi, dirigendosi verso lo stradone a veloce percorrenza. Con le bimbe alle costole aumentò l’andatura e attraversò. Udirono uno stridio di freni. L’impatto fu violento! Il povero corpicino venne sbalzato per diversi metri e ricadde nel campo adiacente. L’auto rallentò, poi riprese velocità e scomparve alla vista. Le due bambine corsero all’impazzata. Matì era riverso su se stesso, un ampio rivolo di sangue usciva dalla sua bocca. Gli occhi spalancati fecero loro pensare fosse ancora vivo. Si chinarono su di lui e Antonella lo toccò. Il corpo era spezzato. Allora capirono che non c’era più nulla fa fare. “Nooo, nooo, non puoi morire! Matì, Matì”, implorò Antonella, sbottando in un pianto a dirotto. Dani era rimasta scioccata: fissava il povero gattino, impietrita, senza distogliere lo sguardo. “Siamo state noi! Siamo state noi! È colpa nostra se è morto!” urlò Antonella. Diede una spinta all’amica, che trasalì. “E’ morto! Se non lo rincorrevamo, non moriva”, urlò inorridita. Ora grossi lacrimoni uscivano dagli occhi di Dani, che ancora non riusciva a emettere suono. Poi, con un filo di voce, disse: “E ora, cosa facciamo?” “Giurami che non lo dirai a nessuno. Mai! Nessuno deve sapere. Questo rimarrà il nostro segreto, per sempre!” “Cosa facciamo?” “Non lo so, non lo so!” Si abbracciarono, piangendo disperate. “Andiamo via di qua”, disse Antonella, “se ci vedono, arriveranno e capiranno”. Ancora incredule, si incamminarono verso casa, senza ricongiungersi gli amici. Il giorno dopo si ritrovarono furtivamente e decisero di fare al gatto un funerale. Non si unirono alla compagnia, ma con passo mesto si incamminarono e raggiunsero il luogo dell’incidente… ma il povero corpicino non c’era più. Con la più profonda tristezza nel cuore e un feroce senso di colpa rimasero in disparte nel grande campo, lontano dagli altri. Lì si sedettero. “L’ho detto a mamma”, disse Dani. “No! Non hai capito, non lo devi dire a nessuno, a nessuno. Mai!” “Ma lei mi ha detto che queste cose capitano… e che noi non abbiamo nessuna colpa, come potevamo sapere? Lo abbiamo rincorso tante volte…” “Ti ho detto che è colpa nostra! Come fai a non capire? E questo sarà il nostro segreto, un segreto per la vita. Chissà chi lo ha preso, forse ci hanno visto… Dove sarà adesso?” Gli occhi di Antonella si riempirono nuovamente di lacrime, che stavolta scesero lentamente, rigandole le gote. Rimasero lì fino al tramonto di quel giorno di mezza primavera, sconsolate e ancora incredule, rimasero fino a quando il sole scese dietro ai casermoni di periferia. In lontananza, i cupoloni della città.

21 anni dopo

Edoardo parcheggiò l’auto sotto casa e si avviò verso il portone di ingresso. Non prese l’ascensore per evitare la signora del piano di sotto, ferma in attesa davanti alle porte; fece solo uno svogliato cenno di saluto col capo per dovuta educazione. Salì a piedi i tre piani, infilò la chiave nella toppa e rinchiuse la porta, calciandola indietro, senza voltarsi. Gettò la borsa dell’ufficio sul divano e si recò in cucina. Aprì il frigo, prese una birra, la stappò e tirò una lunga sorsata. Il frigo, come sempre, una tabula rasa. Si lasciò andare sul divano, le gambe divaricate, la bottiglia stretta in mano…

E se avesse accettato l’invito di Patrizia alla sua festa di compleanno…


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