Di segni e sogni
- Monica
- 7 lug 2021
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 7 mag 2023

Lassù, arroccata sul pendio, una manciata di piccole case dal tetto blu. Bambini festanti, dai larghi sorrisi, schiamazzano felici. Al limitare del villaggio, le spighe di grano stanno crescendo. Sotto, il fiume scorre tra strette anse, gonfio di piogge monsoniche. Una donna indossa una lunga gonna colorata, grandi fiori verdi e oro su fondo viola. Ha un’anella al naso e un turbante, che le cinge il capo. Profonde rughe le solcano il viso, quanti anni avrà? La montagna sovrana si alza immensa a delimitare l’angusta vallata. Le pareti salgono verticali tra speroni di roccia bianca. La foresta intorno, intensa e verde, trasuda di pioggia. Domani è il grande giorno. Kamal tenterà la scalata. È lui il predestinato: ha fatto il sogno, tanti anni or sono.
All’alba si incamminano, 13 km dentro la giungla. La nebbia bassa, bianca e fumosa, impedisce la vista in lontananza. Ha piovuto tutta la notte. È un paesaggio metafisico, sotto, chiuso e ovattato; sopra, immenso e assoluto: dal verde fitto, al bianco delle vette lontane. Camminano in fila indiana, a volte, aprendosi il varco attraverso sentieri persi dentro quelle pendici, strette tra la ripida gola scavata dal fiume. A una sola valle di distanza, maestoso, il monte Everest. Il ponte tibetano è stato stracciato via dall’ultima inondazione monsonica. Al suo posto, grossi e lunghi fusti di bambù, tenuti insieme da corde, vanno a formare l’altro ponte posticcio, effimero, a pelo dell’acqua, spruzzato dai vortici della rapida. Ad uno ad uno passano. Si tolgono le scarpe per avere più presa. Scalzi, a piedi nudi, con l’acqua che ti bagna, è più facile procedere. Sunil porta in spalla l’enorme rotolo di corda di bambù che servirà per la scalata, ben 100 metri, 45 chili di peso, che lui e gli altri hanno fabbricato in due settimane intrecciando centinaia di striscioline di bambù.
Nella radura lo sciamano brucia nuvole di fumo: erba, incensi, cotone impregnato di burro di yak. Un odore pungente si sparge nell’aria. Ha delimitato lo spazio sacro con paletti di bambù: è vietato uscirne fino alla fine del rito. All’interno, costruisce due altarini con foglie di banano. Su di essi dispone riso, granoturco... e una bottiglia di Johnnie Walker Red Label. Afferra qualcosa nell’aria, qualcosa di invisibile, si porta la mano alla bocca e fa come per soffiarci dentro, intona un mantra, che sussurra piano piano, è noto solo a lui e agli spiriti della foresta. Poi apre il pugno, come per lanciarne il contenuto. Prende una bacchetta di bambù, nell’altra mano tiene una zucca svuotata e riempita di acqua. Al suono di campanelle di preghiera, tra le spirali di fumo, immerge la bacchetta fatata nella zucca e spruzza l’acqua, come per benedire Kamal, che si inginocchia a testa china. Decapita un gallo sacrificale e con il sangue strofina la fronte del predestinato. È lui, che ha fatto il sogno, poco più che bambino.
liberamente tratto dal documentario The last honey hunter
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