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Capitolo 8 - I tatuaggi dimenticati

Monica

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Mathilde entrò trafelata, aprendo di slancio la porta della libreria, che si richiuse rimbalzando con un fragoroso tonfo. Con i suoi goffi passi salì i gradini a due a due e venne risucchiata dentro alla scala a chiocciola, che portava al salone superiore dove, assorto nella lettura,c'era Halvor.      
  “È arrivata! È arrivata!” urlò.      
  Il fratello trasalì, alzò la testa, e si trovò davanti il suo buffo viso, che si aprì nella tipica risata a bocca piena.    

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   “E’ arrivata”, ripeté, questa volta a fil di voce, trattenendo l’eccitazione. “L’hanno lasciata all’entrata”.     

   I due corsero giù dalle scale e, davanti alla porta, trovarono una cassa di legno, sigillata con chiodi. Anche Halvor, ora, mostrava un certo eccitamento. Chini su di essa, traballanti e malfermi, riuscirono a fatica a trascinarla all’interno. Con un piccolo scalpello fecero leva sui chiodi e riuscirono ad aprire uno spiraglio.

   Poi, tira tu, che tiro anch’io, l’intero coperchio saltò via di scatto, facendo rimbalzare all’indietro Mathilde, che ricadde sul sedere.     

   “Ihihih”, un’altra sua risata ruppe il silenzio.         

   All’interno della cassa si scorgevano variegati colori: azzurro, verde, giallo, arancio, lilla… leggere come piume, impalpabili come ali di farfalla, le sciarpe di seta attendevano solo di essere srotolate.           

   Al di sotto di esse, si trovavano pacchetti di cellofan con all’interno i più svariati tipi di tè: nero, bianco, verde, sencha, bancha, kukicha e la preziosa polvere matcha, poi gli aromatizzati con cardamomo, cannella, scorze di arancia, infinite spezie, erbe, frutti e fiori, che li suggellavano con nomi evocativi… il Giardino segreto, la Ninfa del bosco, Gocce di rugiada…             

   Con immotivata delicatezza Halvor prendeva ogni pacchettino, leggeva l’etichetta, lo rigirava tra le mani, verificandone il contenuto, quindi lo riponeva in una cesta. Ci vollero diversi minuti per portare a termine questo esasperato rituale e, soltanto alla fine, nascosta sotto l’ultimo strato di sacchetti, notò un’altra busta, ma molto più grande. Era una busta sottovuoto con all’interno foglie di menta. Stupito, Halvor la prese, la annusò socchiudendo gli occhi e, quasi inebriato, sussurrò:         
   “Ma è menta… è menta… io non l’avevo ordinata. Mathilde , ne sai qualcosa?”     
  “Io? No, no… la tua tanto amata menta, chissà come c’è finita lì… prendila come regalo benaugurale, perché farsi troppo domande? C’è e basta.”          

  Gli ordini di tè venivano fatti un paio di volte all’anno sempre agli stessi certificati produttori, che fornivano da anni la Libreria nel Bosco. Il tè serviva principalmente a intrattenere i clienti durante la presentazione dei libri e, finalmente, quella mattina la tanto aspettata cassa era arrivata direttamente dal Giappone. 
  La preparazione del tè era una sorta di rituale in cui Halvor si improvvisava taikomochi. Aveva studiato tempi, gesti, movenze, come il tè veniva infuso, versato, sorseggiato.

   Così, mentre erano intenti a sistemare, all’improvviso udirono un frullo, seguito da un bubbolio, l’aria si mosse, alzarono gli occhi, e videro il gufo bianco delle nevi posato su un ramo.          
   “Ehi, è tornato!” esclamò Halvor.           
  “Ma lui c’è sempre stato, è da anni che lo vedo”, rispose Mathilde ammiccando.    
  “Sì, sì, ma mai come ora. Prima arrivava di tanto in tanto, sembrava controllasse, poi volava via, ora mi cerca, mi segue, sembra mi chiami.”         

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   “E tu rispondigli.”    
   La buffa e simpatica Mathilde si mise a imitarlo, come faceva con gli uccellini:

   “Buuubuuubuuu”e il gufo rispose senza esitazione, accompagnandola in una sorta di duetto.      
   “Ihihih, vedi? Tu parlagli, lui ti risponde…”     
  Ma Halvor non rise, anzi, rimase pensieroso, e non svelò alla sorella la sua scoperta delle settimane precedenti, quando gli era magicamente apparso quel portale proprio nell’albero da lui scelto per il rifugio.  Né le raccontò di quella strana sensazione di quiete che lo pervadeva a ogni bubbolio del gufo. Ma c’erano anche quelle parole nella lettera che aveva trovato, che continuavano a frullargli in testa… le ali, i fiocchi di neve, il fascio di luce.

   “Dio mio”, pensò, “cosa mi sta succedendo, sto impazzendo… hanno ragione loro, sono proprio matto… e quella lettera, quell’assurda lettera, dove è finita? L’ho forse sognata, forse, non è vera… per questo non la trovo più.”  
  Mathilde, provando grande tenerezza, notò i suoi occhi velati di lacrime, che tradivano tutto il suo smarrimento. Decise che doveva fare qualcosa per aiutarlo. Si sarebbe consultata con Mynte.

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Intanto, alla Casa Missionaria dell’Accoglienza era scesa la sera, la neve continuava a scendere, ma in minuscoli fiocchi ghiacciati. La suora entrò nella camera che ospitava il fratello e il suo sguardo venne rapito da bizzarri bagliori evanescenti, riflessi da un involucro posato sul tavolo, proprio sotto la lampadina che penzolava dal soffitto. Una sciarpa di seta arancione lo avvolgeva, non poteva che essere uno dei libri di Svend.         
   Freja srotolò via il foulard e, con curiosità, si mise a sfogliare il libro fino ad arrivare a una pagina con stralci di frasi sottolineate.    

 

“… e fu così che Persefone, accecata dalla gelosia, punì Myntha, la ninfa traditrice, che tanto aveva osato rubandole il marito, trasformandola in un vegetale, un’inerme pianta… Plutone nulla poté per l’amata, decise così di donarle un tipico e inebriante profumo, come quello che lo aveva fatto innamorare… La freschezza tipica della menta si fuse in un appassionante contrasto con l’ardente calore della passione…”

  
    A fianco, segnate con una penna rossa, le seguenti note: “Mynte >>> menta in danese. Myntha >>> menta in greco”
   Con sguardo assorto, la suora rigirò il libro tra le mani, ripetendo tra sé il titolo:      
   “A un usignolo mi porta la tua ombra… questa poi… ecco il libro menzionato da Svend.”           
  Lo riavvolse nella sciarpa e lo ripose nella stessa esatta posizione.

 

    Fu un’altra notte di pensieri, incubi, sogni. Un altro tempo in cui si rincorsero immagini oniriche.
 

La neve cadeva copiosa, offuscando la vista, e più Freja cercava di scorgere oltre il velo nebuloso della luce biancastra, più quella stessa luce si trasformava in una nebbia fumosa, virandone però il colore che, poco a poco, prendeva una nuance verde acido… verde, sempre più verde… fu così che si ritrovò nel bosco, ma in un soffice giorno di primavera: cantavano gli uccelli, una sinfonia di cinguettii, poi improvviso, un bubolare. Il gufo, apparso il giorno prima nel cortile della Casa Missionaria, era ora appollaiato su un ramo e la guardava.

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Si svegliò con la luce dell’alba, ancora frastornata. Si guardò le mani, che iniziavano a mostrare i primi segni di invecchiamento, ma le sue bellissime dita affusolate le conferivano ancora una bellezza sensuale. Lo sguardo si posò sui tatuaggi, li passò in rassegna, era tanto tempo ormai che non li guardava più: serpentelli, fiori, e tanti strani ghirigori, che si avvolgevano e svolgevano e, tra loro, quella strana forma. Dopo le bizzarre apparizioni delle ultime ore, non poté che ricordarle la sagoma di un uccello. Aggrottò le sopracciglia in un ricciolo di pensiero:


    “Un gufo”, pensò, “sì, è un gufo… perché non c’ho mai pensato? Ma no, sono solo suggestioni… chissà dov’è finito Bendik Lund, il nostro tatuatore, chissà se è ancora vivo… dovrei chiederlo a lui, che cosa significa questa strana forma…”


   Sorrise, sorrise ai ricordi di quella gioventù lontana, sbandata, ma intensa e vera. Dopo lo shock dell’incidente, di quelle strane forme si era volutamente dimenticata, ma non le aveva mai rinnegate e, quella mattina, tutto si riaccese forte come non mai.     
    Una lacrima le scese sulla guancia.         

​

 

Il piumino correva veloce, come danzando, accarezzava i libri sugli scaffali, si insinuava dentro le fessure, percorreva tutta la sporgenza della mensola. Nel ruolo di massaia, Freja sembrava un po’ troppo esasperata, come presa da una sorta di frenesia, come se qualcos’altro dovesse succedere da un momento all’altro, e lei non potesse perdere l’occasione di coglierlo al volo. Era stata sempre presente nella vita dei “suoi ragazzi”, nel corso degli anni li aveva amorevolmente seguiti e non mancava di aiutare in libreria nelle più varie mansioni, ma quella della donna delle pulizie era un compito del tutto nuovo, che si era attribuita per poter essere più vicina a Halvor in un momento in cui aveva percepito un suo tormento interiore, molto più marcato del suo abituale stato assente e lunatico, che da sempre lo contraddistingueva. D’altronde, a Halvor e Mathilde non dispiaceva averla intorno, l’avevano sempre considerata parte della famiglia, anche se quella sua recente insistenza nell’essere in libreria non era passata inosservata.
 

Era nella sala arancione, intenta ad arrivare al lampadario, appeso all’alto soffitto. Saltello dopo saltello, il lungo manico del piumino scivolava veloce sulla superfiche della plafoniera, cercando così di spazzare via la patina di polvere.     
   Che fatica! Non aveva più l’età.

   Si fermò un attimo per riprendere fiato e, proprio allora, gli occhi le caddero sugli stravaganti disegni della parete, un insieme di linee contorte e ricurve. Tra quegli strani pittogrammi, il suo sguardo colse una sagoma, nascosta tra le altre. Si avvicinò incuriosita e guardò più attentamente. Quindi, rivolse gli occhi verso le sue mani.
    Il piumino cadde per terra.

   La fronte era corrucciata, la bocca semiaperta, lo sguardo ora si alternava concitato tra la parete e le sue mani, le sue mani e la parete. Forte, sentì un aroma di menta.      
  Quella forma scorta tra i disegni era del tutto identica a quel tatuaggio a forma di gufo che era raffigurato su una delle sue dita.    

   Come era possibile? Cosa altro doveva ancora succedere?  

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Il suo cuore tumultuava. Ancora incredula, si mise in cerca di Halvor, che si trovava, come suo solito, sprofondato in poltrona a leggere. 
   “Halvor, scusa, puoi dedicarmi un attimo?”     
  Halvor alzò lo sguardo dal libro. Non poté non notare la sua malcelata agitazione.
   “Che è successo?” 
   Con la voce un po’ tremante ripose:       
  “Niente, niente… è una cosa che volevo chiederti da un po’… cosa significano tutti quegli strani disegni che hai fatto sui muri, vogliono dire qualcosa?”                 Aprendosi in un timido sorriso, Halvor rispose:

   “Ma no, mi son venuti spontanei, mi son messo a disegnare ed è stato come se la mia mano fosse guidata nello scarabocchiare quelle linee… Non vogliono dire niente. Però mi sono divertito”.        
    Era troppo sconvolta per rivelare la sua strana scoperta e non del tutto sicura che Halvor stesse dicendole la verità. Non era possibile che le due forme coincidessero, non era proprio possibile.


  Cosa stava nascondendo? Che legame c’era tra Halvor e Bendik Lund, il tatuatore? Doveva assolutamente scoprirlo.

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image credits: 1. David Nisley, 2. Skitterphoto, 3. Yuri_B, 4. 13smok da Pixabay

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