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Capitolo 7 - Improvvisa, una luce

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Federica

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Da sempre Halvor aveva sentito il legame con il regno degli uccelli, fin dall'infanzia, quando andava per i boschi con suo padre, che era invece appassionato di alci rosse. Passavano intere giornate ad ascoltare i suoni della natura; Halvor iniziò in quegli anni a scrivere su un taccuino tutte le tipologie di uccelli che riusciva ad osservare; si avvicinava a loro solo quando capiva che poteva farlo e crebbe con un profondo rispetto verso tutti gli animali.    
  Lì, in quel bosco, si sentiva a casa, sentiva un legame indissolubile mentre respirava profondamente quell'aria incontaminata e pura. Non appena crebbe, iniziò a mettere da parte qualche soldo, e si fece sempre più grande il desiderio di costruirsi una piccolo rifugio su un albero. La libreria era certamente il suo luogo, ma l'idea di costruire una piccola casetta con le proprie mani, e avere un nido tutto per sé, gli faceva battere il cuore più di ogni altra cosa. Vista la sua passione per gli uccelli, aveva deciso di creare una parete e un tetto di vetro, così da poter osservare meglio il bosco e tutta la sua fauna e flora. Sarebbe stato come essere all'interno di un quadro, il suo quadro naturale sul bosco. Costruire un rifugio sull'albero non sarebbe certo stata un'impresa semplice, passò molte delle sue nottate consultando libri di ingegneria ambientale, e decise di affidarsi al falegname più vecchio della Danimarca per capire quale fosse la tipologia di albero migliore, la più resistente e anche la più affascinante. 
 

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   Fu così che, terminato lo studio teorico, cominciò le sue perlustrazioni nel bosco. A circa 200 metri dalla libreria c'era un bosco di tigli che conosceva molto bene perché suo nonno, il papà di Ole, grande apicoltore, aveva qui innumerevoli arnie. Decise allora che quello sarebbe stato  il luogo giusto per il rifugio, non sarebbe stato né troppo vicino né troppo distante dalla libreria e avrebbe potuto quindi avere le sue pause senza allontanarsi troppo dal lavoro, e poi, quando i tigli sarebbero fioriti, si sarebbe inebriato con il loro profumo. Il nonno non c'era più, e decise anche che un giorno avrebbe lasciato il rifugio ai suoi genitori per ringraziarli di come avevano fatto crescere lui e Mathilde, con questo smisurato amore per la natura e gli animali, con tutti i ricordi legati al bosco e ovviamente anche alla libreria.   

   Passavano i mesi e poi le settimane, e con questi pensieri felici s'incamminava di giorno in giorno nel bosco di tigli, con uno zaino pieno di corde per salire sugli alberi.

   Accadde così che qualche mese prima, durante una di queste sue passeggiate, si addentrò sempre più nella boscaglia, come sospinto da un indefinito richiamo. Si aprì un varco nel sottobosco con una piccola roncola e continuò ad arrancare lentamente con goffi passi. All’improvviso, un rumore lo distrasse: un farfuglio tra la sterpaglia, forse un selvatico. Fu allora che si fermò e alla sua destra notò un albero che lo colpì per la sua bellezza, aveva una ramificazione diversa rispetto agli altri, e vide subito che, attorno a esso, nasceva spontaneamente della menta selvatica. La sua amata menta. Fu come un segno, qui, su questo albero, avrebbe costruito il rifugio dei suoi sogni.    
  Iniziò a legare una cima della corda alla sua cinta e l'altra cima a un ramo non troppo alto: era incredibile quanto riuscisse già a visualizzare la casetta con le pareti di vetro, e una piccola scala a chiocciola per salirci sopra. Stava per arrampicarsi, quando si accorse di un incavo scolpito nel tronco, lambì con le dita quella cavità e, all’improvviso, un fascio di luce emerse dalla sua profondità. Era una luce aranciata, che saettò incontro alla sua figura nell’insieme di variegati raggi, facendosi  sempre più vibrante. Ne fu quasi accecato. Per un periodo, che gli sembrò infinito, non riuscì più a mettere a fuoco ma, con grande sorpresa, non fu spaventato da quella momentanea cecità. Davanti a lui solo gocce di luce, che oscillavano sul suo iride. Una vampata di cocente calore lo invase. 

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    “Cosa c'è di tanto speciale, che ti fa brillare gli occhi, Halvor?”
   Si voltò e, poco lontano, vide un’ombra sfuocata. Strinse gli occhi per vedere meglio e, a poco a poco, quella forma prese sembianze… Michael Madsen, mezzo sbronzo, lo stava fissando! Pensò per un attimo di stare sognando. Mosse le labbra, ma nessun suono uscì dalla sua bocca.       
  “Halvor, tutto ok?”          
  La luce continuava a sgorgare dall’incavo, anche se più fievole, fino a esserne risucchiata e scomparire.           
  Finalmente riuscì a farfugliare:

   “Si-signor Madsen, co-cosa ci fa qui, mi spia?” 
  “Ma no, cosa dici! Non volevo spaventarti, stavo passeggiando nel bosco quando ti ho intravisto, e mi sono inoltrato anch’io dentro questo labirinto…”

   Un riso imbarazzato fermò per un attimo le sue parole, quindi, spavaldo, continuò:           
  “Ho pensato, ma sì, tanto vale che lo saluti, così gli parlo anche del nostro progetto, ricordi, quello che ti menzionai il mese scorso…”           
  Ormai esasperato dalle tante invasioni del sindaco nella sua vita, avrebbe voluto urlargli addosso:          
  “Non mi interessa, non ha ancora capito, non mi interessa!” ma si accorse che le sue parole erano in realtà nulla più di un barbuglio. Notata la sua totale confusione Michael Madsen desistette:         
  “Scusa, scusa, va bene, non volevo disturbarti, ne riparliamo…”
  Si voltò e scomparse nella boscaglia.

 

   Da allora erano passati alcuni mesi, e lo stato confusionale di Halvor cresceva. La visione di quella sorta di portale luminoso si era ripetuta qualche altra volta, non sempre però, non tutte le volte che si recava in quello sperduto angolo del bosco per portare avanti il suo progetto. Quella apparizione dell’albero fatato lo sconvolgeva. Entrare dentro a quell’oscuro recesso era come entrare dentro a una dimensione diversa.
   Come era possibile? Come era possibile che il sindaco non avesse visto quella luce? Quella era la riprova della sua pazzia.
  La cosa lo inquietava, eppure, quando ritornava in quel selvaggio rifugio nel bosco, tutto il suo turbamento, come per incanto, scompariva, e una strana quiete iniziava a pervaderlo.

 

   Quella mattina, Halvor uscì dalla  libreria per controllare il suo stagno, dare pane secco agli uccellini e recuperare la legna da ardere nella sua stufa antica. Era innamorato di questo suo rituale, alla stregua dei suoi libri, dei suoi dipinti e dei suoi clienti più curiosi e appassionati. Sceglieva meticolosamente le pigne migliori, che servivano per accendere poi i legni più piccoli, così da alimentare successivamente i tronchi tagliati in quattro parti, che riuscivano ad ardere per giornate intere. Tutto andava eseguito con un metodo affinato negli anni, le pigne, le prime da posizionare nella stufa, precisamente cinque ad ogni accensione, qualche rametto secco e sette legnetti piccoli; questa era la formula per assicurare ai legni più grandi di accendersi senza rischiare di spegnersi mai.    
  Con questa stufa, oltre che scaldare tutte le stanze della libreria, amava preparare il tè per tutti i suoi clienti, e si era abituato anche a lasciare la cioccolata in tazza per sua sorella Matildhe. Il tè era così buono e aromatico, che  la voce si era diffusa fino al centro della città, Halvor era infatti convinto che molti dei suoi clienti l'avessero conosciuto grazie alla sua miscela che, di tanto in tanto, amava impreziosire con della menta.   

   Nell'esatto momento in cui la sua mano toccò la maniglia della porta d’entrata, un turbine di vento lo avvolse in un vortice. E, subitaneo, emerse uno strano verso ovattato… era un bubbolio. Alzò gli occhi e infatti vide un gufo bianco a un soffio dal tetto, mentre si apprestava a posarsi sul comignolo. Era il gufo che di tanto in tanto si presentava, ma mai lo aveva sentito emettere alcun suono. Fu allora che, con malcelata meraviglia, riprovò quella strana sensazione di quiete che lo pervadeva solo nel rifugio nel bosco.

image credits: 1. Valiphotos, 2. Terry Sharp da Pixabay

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