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Capitolo 6 - Una danza nella neve

 

Patrizia

All’alba Farstrup era completamente avvolta dalla neve. Suor Freja, per tutta la notte,  non aveva praticamente chiuso occhio.           

   Era nata a  Glostrup, un sobborgo occidentale di Copenaghen; di indole curiosa e amante della musica, si era unita a un gruppo di ragazzini che, come lei, cercava il brivido e l’avventura. Spesso, troppo spesso, preferiva chiudersi in una cantina con i suoi amichetti per fumare e suonare e cantare e stordirsi. Tre ragazzini e due ragazzine, tutti scalmanati, formavano la band. Diciassettenni squinternati, che pensavano di possedere il mondo. Insieme decidevano tutto quello che facevano, e fu così che andarono a Copenaghen per farsi tatuare sulle dita disegni uguali per tutti, che il resto del mondo potesse ben vedere, e così comprendere, che loro sì erano veramente uniti, e loro sì, sapevano come vivere, e loro sì, erano i migliori…   

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   Prima di rientrare a casa avevano comprato due bottiglie di gin: festeggiavano l’avvenimento, la fratellanza, si ammiravano le dita ridacchiando, fumando incessantemente e bevendo a turno, a collo dalle bottiglie.      
  Al ritorno in auto, Freja era addormentata, quando la macchina improvvisamente sbandò. Senza un ricordo particolare, si risvegliò tre giorni dopo il fatto, in ospedale, con la testa avvolta in bende. Ci mise un po’ a comprendere, a ricordare, si guardò le mani e, nel vedere i tatuaggi, ricordò…

   Un brutto incidente, le dissero, per fortuna lei era seduta dietro, le dissero.     
   “Come stanno gli altri?” chiese con una voce che non riconosceva.
   Solo teste chine, nessuna risposta se non:           
   “Riposa ora, domani starai meglio.”       
    Una settimana dopo seppe. I suoi amici, erano morti... morti tutti…  
  In ospedale passava tutti i giorni padre Paolo, un prete cattolico, che portava conforto agli ammalati, specialmente ai bambini, con cui giocava e, se occorreva, faceva anche il pagliaccio. 
   Freja non era mai stata religiosa ed era sopraffatta dal dolore, non solo fisico che la pervadeva, pertanto fu con molta indifferenza che accolse il prete, quando entrò nella stanza per la prima volta.     
   Ogni giorno padre Paolo arrivava nonostante lei non lo guardasse mai in faccia. Lui era sempre gentile, sorridente. Visto che Freja non aveva voglia di parlare, lui le leggeva qualche brano del Vangelo, qualche parabola, poi la salutava gentilmente e usciva.    
   Nonostante lei non lo guardasse e neppure rispondesse ai saluti, lui non mancava mai. Due giorni prima di essere dimessa, padre Paolo entrò nella stanza con un pacchetto. Le si avvicinò, le prese una mano, e le accarezzò il dorso, soffermandosi poi sulle lunghe dita affusolate, su cui troneggiavano i recenti tatuaggi.           “Sono bellissimi questi disegni”, le disse. “Ti lascio un regalo, se avrai voglia di leggerlo. Buon rientro a casa.”
   Freja per la prima volta si girò a guardarlo:          
  “Non tornerà più?”          
   Lui le sorrise:         
  “Solo se vorrai.”

 

 

   Mentre fuori albeggiava, la suora interruppe la preghiera del mattino, inutile pregare, il suo pensiero era rivolto alla sera prima. Sconcertata, in ansia, si alzò dall’inginocchiatoio e si toccò la lunga treccia nascosta dal copricapo. Le sue dita sfiorarono la cicatrice sulla tempia, chiuse gli occhi, espirando rumorosamente. Inutile agitarsi, si disse, occorre ritrovare la calma. Si avvicinò alla finestra e, osservando il bianco intenso e compatto della neve, si sentì pervadere da una leggera euforia: ci sarebbe stata una soluzione, un’indicazione sarebbe arrivata, sì, ne era certa, l’amore avrebbe vinto. 

   E così, per spazzare via il nervoso, la preoccupazione e l’agitazione della sera prima, aprì la porta e letteralmente si tuffò nella neve sollevando la lunga gonna… che meravigliosa sensazione la neve fresca sulla pelle. La sua risata non passò inosservata e anche le altre suore, dapprima meravigliate e quasi scandalizzate, cominciarono a ridacchiare e poi, con titubanza prima e con slancio infantile poi, la raggiunsero rotolandosi nella neve come bimbe impazzite.

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  Anche Svend non aveva chiuso occhio durante la notte e quando sentì le risate provenire dall’esterno si era appena addormentato. Occupava la stanza utilizzata come camera per i parenti. La sera prima, stanco e agitato, aveva accettato l’invito della sorella a rimanere lì per la notte, un invito che gli aveva proposto anche padre Paolo, dopo essere stato consultato da suor Freja. La sorella gli aveva così procurato un pigiama che odorava di lavanda, una saponetta e un asciugamano. Svend, senza spogliarsi si era seduto sul letto, con le spalle curve, tenendosi il viso fra le mani. Quando poi si sdraiò per cercare di dormire, in realtà non fece altro che girarsi e rigirarsi nel letto, sospirando e pensando, pensando e sospirando… 

   Ora la luce entrava dalla finestra e poteva osservare la stanza, molto spartana nell’insieme, ma con le pareti dipinte di un colore malva pallido, che davano un senso di calore. Due pareti erano attrezzate con scaffalature di legno naturale, sulle cui mensole erano posati barattoli di marmellata, di frutta sciroppata, di conserve, di verdure immerse nell’olio. Tutte rigorosamente suddivise in colori: una policromia affascinante, artistica, come quadri astratti appesi alle pareti. Il letto, una volta chiuso, sarebbe diventato un mobile collocato sotto al vano della finestra. Una lampadina di grandi dimensioni, sorretta dal filo elettrico, troneggiava sopra un tavolo quadrato con grosse gambe di legno grezzo e il piano di marmo, solo due sedie impagliate lungo i lati.        

   Dall’esterno ancora risate e gridolini.      

  In fretta si avvolse la sciarpa intorno al collo, infilò il giaccone e i guanti e uscì all’aperto, mentre dalla costruzione di fronte, adiacente alla chiesa, uscì anche padre Paolo. I due uomini si guardarono negli occhi, si sorrisero, girarono l’angolo del giardino e per un attimo rimasero immobili a osservare dieci scatenate donne con gli abiti inzuppati, i i capelli scarmigliati, che ridevano e si lanciavano grosse palle di neve, correndo per evitarle… poi qualcuna disse.  

   “Guardate!” 

   “Sì, ha ricominciato a nevicare.”  
   “No, no, guardate lassù sul ramo dell’abete rosso!”       Dodici paia di occhi si sollevarono: un meraviglioso gufo bianco delle nevi li stava osservando, almeno così sembrava. Pochi istanti e il gufo spalancò le sue bellissime ali bianche, volteggiò sui volti rivolti su di lui e con un breve ed elegante movimento oscillante, si allontanò.      

   Aveva ripreso a nevicare.

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image credits; 1. ArtTower, 2. cocoparisienne, 3. 3792087

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