MONICA MAZZANTI
copywriting - redazione testi
corsi di scrittura
Inchiostro di parole
Capitolo 18 - Il tempio del muschio
Patrizia
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Whasi volava sempre più in alto, allontanandosi dalla città, affrontando uno spazio colmo di disperazione, nessun pensiero, solo una immensa e profonda disperazione. Le ali stanche, si fece trasportare dal vento, senza una meta. Dopo un tempo infinito, stremato, trovò rifugio in cima al monte Tomuraushi. Nascose il capo fra le ali, ancora pulsava il punto dove lo aveva raggiunto il lampo di Mynte, ma il dolore, che proveniva dal petto, era insopportabile.
“Chi ama, si sacrifica; chi ama, si sacrifica”, come un mantra queste parole riempivano la sua testa.
Pianse Whasi, e il cielo si coprì di nuvole scure, e la pioggia si riversò lungo le pendici del monte Tomuraushi, si riempirono i ruscelli, e si trasformarono in torrenti colmi di acqua del colore della terra.
Infine Whasi trovò un po’ di pace nel sonno, che lo colse mentre albeggiava, e la pioggia cessò.

Mynte era volata al portale, ma quando giunse allo stagno, la rabbia che l'aveva posseduta si trasformò in stanchezza. Si sedette sull'erba umida, raccolse le ginocchia al petto abbracciandole e posò lo sguardo sulle anatre, che galleggiavano leggere sull'acqua. Intorno allo stagno, nei punti in ombra, chiazze di neve. Chiuse gli occhi ed assaporò il calore del sole sulle spalle. Pensò alla sua immortalità, al tempo, che per lei non rappresentava nulla, alla vita che aveva vissuto e agli attimi di felicità legati al periodo passato con Svend, alla meravigliosa emozione del concepimento, al senso di completezza nell'essere madre.
Aggrottò la fronte al pensiero dell'inganno di Whasi.
“<Se starai accanto a tuo figlio, i vostri poteri si sommeranno e ci saranno catastrofi inimmaginabili di cui sarai responsabile> Maledizione a te Whasi”, pensò.
Se Whasi non le avesse mentito, lei avrebbe potuto crescere Halvor. Svend e lei sarebbero stati una famiglia.
“Una famiglia… Sto dando i numeri… mentre tutti intorno a me sarebbero invecchiati, io sarei rimasta sempre giovane come ora… e come avrei giustificato questo? Forse Whasi aveva ragione, forse… devo tornare in Giappone, ma prima voglio vedere Halvor, abbracciarlo e parlare ancora con lui.”
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Quando arrivò alla libreria c'era solo Mathilde.
“Halvor è andato da Svend, voleva portargli un libro appena arrivato: una guida del Giappone, mi pare abbia detto. Non la classica guida, una specie di diario di viaggio.”
Logico, naturale che Halvor fosse andato da suo padre. Ma Mynte si sentì esclusa. Avvertì una tristezza che non conosceva.
A Mathilde non era sfuggito l'incupirsi dello sguardo e gentilmente le aveva preparato un tè. Entrambe mute, mentre sorseggiavano la bevanda: Mynte avvolta nella malinconia e Mathilde che cercava di raggiungerla telepaticamente.
“Mynte, sento il tuo dolore, cosa posso fare per aiutarti?"
“Ho usato il filtro della verità, era una formula disegnata da Halvor, e ho scoperto che Whasi mi ha mentito perché mi voleva solo per sé. La mia rabbia è esplosa e l'ho colpito e subito sono fuggita. Sono sola, sola, sola. Sono così stanca."
“Hai bisogno di distrarti. Andiamo a fare shopping, vedrai che poi ti sentirai meglio. Ho un'idea: ti va un giretto in macchina? E se passassimo da Freja? Forse potrebbe unirsi a noi. Due giorni fa alla calzoleria di Karl Toosbuy vendevano un paio di stivali supergalattici, vorrei proprio farveli vedere.”
Mynte si fece trascinare dall'energia di Mathilde, era così piacevole sentire la sua risata, un balsamo magico, che leniva il suo malessere.

Arrivate al parcheggio del centro commerciale, mentre stavano scendendo dall'auto, videro Halvor, che chiacchierava con Svend. Per Mynte fu come ingoiare un ghiacciolo, il cuore le pulsò in gola. Non poteva farsi vedere da Svend, egli ignorava la verità sulla sua reale natura.
“Che fare, che fare?”
Per la seconda volta nella stessa giornata fuggì. La prima fuga dettata dallo scontro e dalla rabbia, ma ora fuggiva dalla paura dei suoi sentimenti umani in netto contrasto con la sua natura immortale.
Solo in un luogo poteva ritrovare la calma perduta: al Tempio del Muschio. Esso si trovava all’estremo nord del Giappone, ai piedi di un monte, dove regnava la vegetazione e abbondava il muschio.
Per giungere al tempio vero e proprio era necessario oltrepassare un cancello esterno costruito in muratura e ricoperto completamente di muschio, la cui entrata era aperta, ma sorvegliata da due statue raffiguranti guardiani, poste ai lati delle colonne.
Solo i puri riuscivano a trovare il sentiero per arrivare al Tempio del Muschio. E solo i più coraggiosi avrebbero potuto salire le ampie scale del tempio, passando sotto lo sguardo severo dei guardiani che, immobili, a torso nudo con muscoli sporgenti in petti enormi, gli occhi gonfi, le sopracciglia corrugate, le narici allargate e le mascelle contratte, esprimevano ferocia e minaccia.
Mynte aveva camminato per giorni e giorni, prigioniera di un malessere che non le consentiva di trovare il sentiero per il Tempio. Più sentiva forte la necessità di pace e tranquillità, più la natura si richiudeva, celandole la strada. Sfinita e demoralizzata si sedette su uno spunzone di roccia e fu lì che vide un cardo selvatico in fiore: ora sapeva di essere sulla strada giusta, alzò lo sguardo e vide il sentiero. Le tornò alla mente l’antica nenia che le narravano quando ancora era piccina:
“Tu sei la menta, il tuo profumo saprà donare refrigerio, saprai mischiare le erbe, calmare i tormenti, ma solo il cardo selvatico saprà indicarti la strada.”
Facendo attenzione a non pungersi, raccolse i lunghi petali rosa, li racchiuse in una foglia, che annodò con lunghi fili di erba formando un ciondolo, e utilizzò un nastro che le tratteneva i capelli per appenderlo al collo e riprese il cammino.
Arrivata al cancello del Tempio si fermò alla fonte e si accinse al rito della purificazione: sciacquò le mani sotto il getto dell’acqua, poi tenendo le mani a coppa, prese un sorso di acqua, che utilizzò per sciacquarsi la bocca. Sputò l’acqua accanto alla fontana.

Giunta sotto lo sguardo severo dei due guardiani li contemplò nella loro imponenza, in posizione eretta, un braccio piegato e la mano con il palmo rivolto all'esterno, sembrava un monito a non entrare, a fermarsi. Si inginocchiò e posò la fronte a terra. L’odore di menta le colmò le narici, mentre il suono di una campana si diffuse intorno. Lentamente, con la testa ancora china, rialzò il busto, poi lo sguardo verso i due guardiani e notò che l'altro braccio si tendeva con la mano protesa in un gesto che, invece, sembrava un mudra di benedizione.
Varcò la soglia.
Mischiò il ciondolo, che aveva fatto con i petali del cardo selvatico, alla cenere degli incensi, raccolse un bacchetto, che fungeva da fiammifero, e gli diede fuoco. Con la mani giunte, gli occhi chiusi, inalò l’acre odore del fumo e lasciò che i pensieri le fluissero liberamente nella testa:
l’immagine di Halvor neonato, i sorrisi e gli abbracci di Svend, le passeggiate mano nella mano, la piantina di menta che lui le aveva regalato, gli infusi che bollivano, i riti nelle notti di luna piena, Halvor adulto che la guardava, Svend che parlava con Halvor, Whasi che la canzonava, che le diceva che l’amava, il fulmine, il vapore che come fumo si alzava dalla tazza con il tè caldo appena versato...
Il suono della campana la ricondusse al momento presente.
Chinò la schiena fino a sfiorare il terreno con la fronte e, con movimento delicato, si rimise in piedi.
Mentre si accingeva a ripulire il braciere utilizzato, sentì una voce sussurrarle:
“Devi dirglielo, ha il diritto di sapere, di conoscere la verità”.
Mynte si guardò intorno, ma non vide nessuno, solo lei e le candele e gli incensi che bruciavano.
Uscì nel giardino, sollevò lo sguardo ad osservare il cielo e le rare nuvole bianche, accarezzò il muschio, che ricopriva una corteccia di un albero, e di nuovo una voce le sussurrò:
“Ha diritto di conoscere la verità, devi dirglielo. Solo i più coraggiosi affrontano le sfide.”
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Svend camminava veloce lungo il sentiero, zaino in spalla. Aveva seguito il consiglio di Halvor di leggere il diario di un viaggiatore alla scoperta dei templi giapponesi, che lui gli aveva donato, dicendogli che faceva parte della raccolta di libri per i più coraggiosi. L’aveva letto in una notte e, dopo due giorni, si era organizzato per andare in Giappone e visitare alcuni dei templi descritti nel libro. Rimasto affascinato dalla descrizione di questo piccolo tempio, che non rientrava nei giri turistici, decise di iniziare proprio da quello. C’era una cartina molto particolareggiata del sentiero da attraversare. Troppo affascinante per resistere a questa tentazione. Era come se una calamita lo attirasse.
La montagna che sovrastava il Tempio in realtà era un vulcano ormai spento e la leggenda narrava, che sia la montagna che il Tempio, emanassero una energia particolare, e che ogni persona che fosse giunta a meditare all'interno del Tempio, avrebbe avuto le risposte che la sua anima reclamava. Almeno così diceva il libro, che Svend custodiva all'interno di una tasca dello zaino. Di cose bizzarre ne aveva fatte tante nella sua vita, timido, insicuro, a volte sfacciato. Da quando Mynte se ne era andata era diventato un lupo solitario, spesso tormentato dall’incapacità di comprendere i motivi per cui lei li avesse abbandonati. E in quei momenti di così profonda depressione riempiva uno zaino, sacco a pelo e via verso mete che lo distraessero. Ma questa volta la molla era stata la curiosità, l'eccitazione di visitare luoghi lontani dai soliti percorsi turistici e trovare il coraggio di affrontare la vita come suo figlio Halvor gli aveva suggerito, regalandogli il libro.
Se non avesse avuto la cartina così particolareggiata non avrebbe visto il tratto di sentiero, che si inoltrava in una fitta vegetazione. Solo il rumore dei suoi scarponi e del suo respiro. Si fermò per bere e, mentre portava alle labbra la borraccia, alzando lo sguardo, gli sembrò di vedere un'aquila volare sopra le cime degli alberi.
“Impossibile”, si disse, “sarà la stanchezza.”
E riprese il cammino.

A poco a poco la vegetazione si fece più rada, fino a mostrare il cancello di entrata, la fonte e i guardiani del Tempio. Svend mise via la cartina, un tappeto di muschio conduceva alla fonte, poco oltre un piccolo stagno: sembrava una cartolina. Inspirò ed espirò profondamente e lentamente, beandosi di questo luogo così magico. Si sciacquò le mani e il viso. Bevve un sorso di acqua, che trovò fresca e dissetante.
Chinando il capo, oltrepassò il cancello. Guardò con interesse i due guardiani, sorrise loro come per farseli amici ed entrò nella prima stanza del tempio. Alle pareti rimbalzava il suono di una campana tibetana, al centro una donna, seduta sui talloni e le mani sulle ginocchia, sembrava in preghiera. L'odore degli incensi riempiva l'aria, la donna alzò lo sguardo e i loro occhi si incrociarono: Svend sentì come se si trovasse in un'altra dimensione, rimase fermo, immobile, mentre la donna, che si era alzata, gli andava incontro sorridendo. Quando fu più vicina lo guardò con intensità e gli disse:
“Ti stavo aspettando”.