MONICA MAZZANTI
copywriting - redazione testi
corsi di scrittura
Inchiostro di parole
Capitolo 14 - Il tatuatore
Simona
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“Dovremmo essere arrivati ormai, il quartiere di Christiania non dovrebbe essere molto lontano.”
Halvor e Freja si trovavano a bordo del furgoncino che apparteneva alle suore, che veniva usato per le rare gite che facevano in comitiva. Freja era abituata a guidare quel vecchio catorcio, ma ad Halvor non dava molta fiducia e non vedeva l’ora di arrivare.
“Il furgoncino lo dobbiamo lasciare fuori, si può entrare solo a piedi o in bicicletta, poi procediamo a piedi. Guarda, possiamo già parcheggiare qui, non è lontano.”
Freja accostò e con qualche manovra eseguì il parcheggio. Si incamminarono e dopo una decina di minuti si ritrovarono di fronte all’ingresso, la zona era piuttosto malconcia, piena di murales ed edifici vanescenti. Passarono sotto un arco in legno che portava la scritta Christiania. Qui i murales erano più belli, dei veri e propri affreschi, molto colorati, alcuni cartelli di tanto in tanto rimandavano a delle semplici regole: non fare fotografie, non correre, non parlare al cellulare.
“Particolare questo quartiere, direi piuttosto suggestivo, però, che strano odore!”
“Ehmm, sì, questo odore, mio caro, qui è la normalità. Ma non sai nulla di Christiania, non hai mai letto nulla a proposito?”
“No, non mi è mai capitato. Perché avrei dovuto?”

“Beh, perché è abbastanza conosciuto questo luogo. Questo odore è cannabis. Tranquillo Halvor, non ti agitare, Christiania è un quartiere anarchico, indipendente dal governo locale e dalle sue regole, per cui qua si può fumare liberamente, la maggior parte delle persone che vengono qua lo fanno soprattutto per questo.”
Halvor tacque perplesso.
“Oddio, allora era vero…”
Ogni sua certezza sulla sua famiglia stava crollando e il fenomeno stava includendo anche i suoi punti di riferimento perché Freja per lui era davvero una seconda madre, qualcosa di strano sul suo passato lo aveva sentito, ma a lui non era mai importato, non voleva sapere, lei gli piaceva così, sacra e ineccepibile, sempre in posizione di preghiera. Ora scopriva che quei posti li conosceva, eccome, per tatuarsi e probabilmente anche per abusare di sostanze.
Freja interruppe i suoi pensieri:
“Più avanti, alla fine di Pusher Street, dovrebbe esserci il negozio di Benedik Lund, spero che ci sia ancora, così ci parliamo e la finiamo qua, questa gita sta diventando impegnativa, non mi piace frequentare i luoghi del passato.”
“Pusher Street?”
Halvor era sempre più allibito.
“Sì, là in fondo!”
Ma appena arrivarono, la suora si fermò perplessa.
“Che succede? Ci siamo persi?” chiese Halvor.
“Ma no, è che qui non c’è più nulla.”
La baracca, che Freja ottimisticamente chiamava ‘negozio’, completamente ricoperta da murales psichedelici, aveva delle travi di legno inchiodate al portellone d’ingresso. Freja chiese informazioni a degli individui che si trovavano a passare di lì. Erano vestiti come nel movimento del sessantotto, probabilmente non si erano proprio mai cambiati. Freja si intrattenne per un po’ a parlare con questi tipi, Halvor non se la sentiva e rimase in disparte. Finalmente la suora li salutò e tornò da Halvor che aveva maturato una certa curiosità.
“Cosa ti hanno detto? Perché non finivate più di parlare?”
“Niente Halvor, qui la situazione si complica!”
“Cioè?”
“Benedik Lund non pratica più qui, non pratica più in generale, si è dato ad attività di altro genere. Mi hanno dato il suo indirizzo, se così si può chiamare.”
“Bene, andiamo, che cosa ci vuole? Almeno ce ne andiamo da questo posto!”
“Prima dobbiamo andare a comprare del buon vino, meglio se champagne.”
“Perché?”
“Mi hanno detto che l’attività di cui si occupa ora Ben, così si fa chiamare ora, è dare delle risposte, ma queste risposte te le da solo se gli offri qualcosa. Ma non soldi! Stando a quel che dicono Benedik, o Ben, non vuole più avere niente a che fare col denaro, vive dei doni che gli fanno le persone quando chiedono il suo aiuto. Solo che mi hanno anche detto che ha già praticamente tutto, e se vogliamo proprio farlo contento, e quindi invitarlo a trattarci con riguardo, conviene portargli del vino di qualità.”
“Ma ci fidiamo?”
“Conosci alternative?”
“Ok.”
“Per vini del genere questo non è proprio il luogo adatto, andiamo in centro città, e poi riprendiamo il furgoncino e andiamo nel Parco dei Daini, è lì che abita Benedik Lund.”
“Abita dentro al parco?”
“Sì, mi hanno fornito le coordinate e i punti di riferimento.”
Ripresero il vecchio furgoncino e, con le due bottiglie di Dom Pérignon, si misero alla ricerca del misterioso individuo, che avrebbe potuto offrirgli importantissime indicazioni per poter districare questa strana rete di eventi e coincidenze. Oppure, ipotesi molto più azzeccata, secondo Halvor, si trattava semplicemente di un pazzo presuntuoso, improvvisato stregone, che li avrebbe mandati ancora più in alto mare con le sue allucinazioni.

Arrivarono al Parco dei Cervi, seguirono passo a passo tutte le indicazioni ricevute da quegli individui poco raccomandabili, addentrandosi sempre di più nella foresta e, come temevano, arrivati al punto indicato, non trovarono nessuna casa, né tantomeno Benedik Lund. Cominciarono a pensare di essere stati presi in giro dagli strani soggetti da cui avevano ricevuto queste assurde indicazioni, con tutta probabilità vaneggiando sotto l’effetto di droghe leggere.
“Ma qui non c’è nulla! E’ semplicemente un tratto di bosco come tutti gli altri che ci siamo lasciati dietro. O ci stanno prendendo in giro o siamo semplicemente incappati in un covo di psicopatici! Non ne posso più Freja, qua non ne caviamo nulla, stiamo solo perdendo tempo!”
Ma, mentre Halvor stava pronunciando queste ultime parole, qualcosa cadde sulla testa di Suor Freja.
“Una fragola? Possibile cadano fragole dagli alberi?”
“Ovvio! E’ un posto talmente assurdo, che anche gli alberi sono mitomani! Andiamocene prima di delirare anche noi!”
“No Halvor”, la suora mise una mano sulla spalla di Halvor, che si stava già incamminando, e gli fece cenno di guardare verso l’alto.
Era un ometto piccolo e di carnagione scura, con lunghi capelli bianchi e una lunga barba bianca, che indossava una lunga tunica bianca, ed era scalzo. Saltellava, agile come uno scoiattolo, tra un ramo e l’altro di questo enorme e vecchissimo albero di canfora. Ma la cosa assurda è che la casa, che stavano faticosamente cercando, stava proprio lassù, sopra le loro testa. Casa… si fa per dire. Non era nemmeno una classica casa sull’albero. Un tavolo con sedie, erano fissati a un grosso ramo con delle elegantissime morse, apparecchiato con una deliziosa tovaglia orlata di pizzi e merletti, posateria d’argento, piatti di porcellana bianca e bicchieri in cristallo, un’alzatina con sopra una bellissima piramide di fragole e un secchiello d’acciaio con ghiaccio, vuoto, per tenere al fresco una bottiglia, che evidentemente stava aspettando.
Appesa allo stesso albero, un’amaca, con tanto di coperta, lenzuola di lino ricamate e un soffice cuscino. Era il suo letto.
Da un altro ramo dell’albero, una poltrona altalena ciondolava accanto a un piccolo tavolino ricavato da una protuberanza appiattita del tronco principale, coperto con una piccola tovaglietta di pizzo, su cui un’elegante lampada a olio stile impero illuminava una vecchia macchina da scrivere.
In altri incavi del tronco vi era la toilette, antica, con tanto di specchio e lavabo, di stampo neoclassico, e asciugamani appesi a dei piccoli appendini in ottone fissati al tronco.
Era una casetta deliziosa e decorata con eleganza e stile, non aveva pareti né pavimento, un abbozzo di tetto c’era, in muratura tra l’altro, quel tanto che bastava perché non si bagnasse tutto in caso di maltempo.
“Benvenuti forestieri! Vi stavo aspettando. Emma cara, alla fine ti sei fatta suora eh! Hahahaha! Lo immaginavo. Dunque, rivelatemi il vostro quesito esistenziale. Quale enigma opprimente vi impedisce un’esistenza serena? Cosa vi porta da me, insomma, brava gente, parlate! Non statevene lì come se aveste visto un fantasma! Ma prima…”
E così dicendo, scese verso di loro e con grandissima agilità, rimanendo appeso al tronco più basso, porse loro un calice vuoto, senza mettere piede a terra, aspettando di essere servito.
Inizialmente non vi fu risposta, ma solo uno stupore paralizzante, i due con gli occhi spalancati e le bocche socchiuse, poi Freja si destò:
“Benedik Lund?”
“Ahahahahahah!”
E dopo una clamorosa risata cominciò a parlare, scandendo ogni parola lentamente, accompagnandosi con una mimica eccessivamente plateale.
“Benedik Lund non esiste più da tanto, tantissimo tempo, ahahah! Bei tempi quelli del tatuatore veggente, briosi ricordi di ilarità! Impiegavo il mio tempo a predire il futuro a degli ignari ragazzini, tramite i segni che effigiavo sul loro derma, arricchito con qualche accento di presunzione pittorica che invece, ahahah, non voleva dire niente. Ahaha! Com’ero simpatico!”
Improvvisamente il tono della sua voce si face più greve:
“Ma, ora sono un mago!”
Fece una breve pausa e poi si spiegò meglio:
“Sono sempre un veggente, ma mi sono stancato di scarabocchiare sulla pelle dei giovani! Potete chiamarmi Ben!”
Freya stappò lo spumante con una nota di scetticismo, e lo versò nel bicchiere, che le fu riproposto immediatamente dopo il monologo.
Ben ne annusò il contenuto paglierino ad occhi socchiusi. Un sorso seguito da un piccolo gargarismo e un breve sciacquo in bocca. Profonda inspirazione a bocca ancora piena. E finalmente deglutì.
“Ottimo! Formulate pure la vostra richiesta ora.”
Freja, molto brevemente disse:
“Cosa significano questi disegni sulle mie mani?”
“Perché a volte io mi ritrovo a disegnare le stesse cose, mentre mi trovo in stato di trance?” aggiunse Halvor.
“Beh! Avete fatto bene a portare due bottiglie di questo ottimo Dom Pérignon, perché la vostra, egregi signori, è una storia parecchio ingarbugliata!”
Ben si diresse verso una zona della sua dimora, che ancora i due non avevano notato. Una serie di tele bianche fissate all’albero e, riposti lì vicino, su un piccolo tavolino, pennelli, tubetti di colore e qualche tavolozza. Prese un pennello e una tavolozza, bevve un altro sorso di champagne, chiuse gli occhi raccogliendosi in un momento di riflessione, come se dovesse ascoltare una voce che sentiva solo lui. Halvor e Freja si scambiarono un breve sguardo di disperazione, non erano più tanto convinti che Ben fosse del tutto normale, poi tornarono a guardare spazientiti verso l’alto, dove Ben si stava ancora concentrando.
Il silenzio fu bruscamente interrotto da una frivola risatina di Ben, che cominciò a saltellare e a frustare allegramente la tela e la tavolozza con il suo pennello, tutto rigorosamente ad occhi chiusi, canticchiando. Andò avanti per diversi minuti, e quello che sembrava solo uno scarabocchio totalmente casuale, cominciò a prendere forma, si intravedevano delle figure familiari e finalmente, il pennello, andando a delineare meglio alcuni tratti, rivelò un dipinto in bianco e nero ben definito. Quando si fermò, lo scetticismo di Halvor e Freja si fece inquietudine. Ben riaprì gli occhi e tutti e tre osservarono il dipinto.

Una tela ritraeva una macchina accartocciata, incidentata, un crocifisso spezzato in due, e un uomo e una donna che si baciavano.
Il rito di raccoglimento ed esibizione di pittura saltellante e canterina si ripeté per altre due tele.
In uno dei dipinti, una grossa aquila teneva con uno dei suoi potenti artigli una gabbia dorata, che rinchiudeva un gufo bianco. Stava volando in direzione opposta a un grande incendio con piccoli uccellini, che scappavano in tutte le direzioni. Alla base del fuoco vi erano libri accatastati.
L’ultima tela ritraeva un piccolo usignolo e, in lontananza, appariva la sagoma di un tempio orientale.
image credits: 1. Rolands Varsberg, 2. Gustavo Rezende, 3. Alexas_Fotos da Pixabay