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Capitolo 12 - Gli occhi parlano

 

Patrizia

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Mille pensieri turbinavano nella testa di Halvor mentre correva. Il bubbolio che aveva sentito stimolava il suo istinto e lo guidava verso lo stagno, verso l’albero con la fenditura. Si sentiva come sdoppiato: pensava ad Inge, al conforto che avrebbe potuto trovare fra le sue braccia e a Ole, con cui avrebbe potuto confrontarsi e avere delle risposte, ma era dominato da una forza e una energia sconosciute. Con lunghe e nervose falcate si inoltrava sempre più all’interno del bosco.   


  “Non so più chi sono” diceva a sé stesso “in realtà, non ho mai saputo chi realmente io sia… ho cercato nei miei amati libri le risposte alle domande che la mia mente formulava… e quei disegni sui muri che scaturivano con naturalezza dal pennello... ma non ero io a dipingere... non ero io, qualcosa mi possedeva, ma cosa? Cosa? Mathilde, leggiadra sorellina, perché non sono come te? Perché ho paura del mondo? Perché ho mille domande a cui non so dare risposte?”        

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Era arrivato allo stagno, un vento leggero gli scompigliò i capelli, che ora erano sciolti e gli scendevano in armoniosi riccioli argentei sul collo, ma il viso era teso e gli occhi gli bruciavano per il riflesso della neve. Il silenzio lo circondava, non sentiva più il bubbolio, solo il rumore del suo respiro.
  Guardò l’azzurro del cielo riflesso nello stagno e ripensò all’oceano che aveva visto nell’occhio…            
  ”L’occhio di quella donna... l’occhio del gufo… che mi succede? Sto impazzendo, ho le allucinazioni…”

   Inconsapevole degli impeti di rabbia che lo avevano assalito, alzò lo sguardo alla ricerca del gufo: si sentiva debole, solo e sempre più confuso. 
  “Non capisco, non capisco, mio padre... mia madre... il gufo... E la luce aranciata che compare fra i rami dell’albero...”           
  Chinò la testa, piegò le spalle e si portò le mani al volto, coprendo gli occhi e il naso e la bocca, e proprio in quell’istante un frullare di ali spezzò il silenzio della natura in cui era immerso. Allontanò le mani dagli occhi cercando la provenienza del rumore che aveva udito: il gufo delle nevi volava verso di lui, sembrava danzasse nell’aria. Una luce si diffondeva dal corpo dell'uccello, che si posò elegantemente sulla neve poco distante da Halvor e, da quella luce, apparve una donna.         

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   Halvor si pizzicò le guance, batté forte le mani, chiuse gli occhi e li riaprì, ma la donna era ormai a pochi passi da lui e gli sorrideva, protendendo verso di lui le braccia e le mani. I lunghi boccoli le ricadevano oltre le spalle, indossava un kimono bianco come la neve e sembrava non sentisse il freddo.
  “Halvor”, disse, “sono così felice di essere di nuovo qui e poterti toccare.”        
  Gli prese le mani e le tenne fra le sue.     
  Halvor non riusciva a emettere parola.  
  Il tepore che sentiva provenire da lei gli riempiva l’anima. Sentiva una grande pace. La guardò negli occhi e di nuovo percepì l’oceano e sentì il calore e la luce del sole.
  “Sono tornata per spiegarti, per svelarti della tua nascita e del perché ho dovuto abbandonarti. Tu sei ciò che di più bello e meraviglioso sia capitato nella mia lunga vita. Non avrei mai compreso appieno il significato dell’amore, se non ti avessi concepito e partorito. Vieni, fatti cullare come non ho mai potuto fare, non posso restare troppo tempo e intanto cercherò di raccontarti." 
  Halvor muto, con un'espressione di sorpresa sul volto, sentiva che poteva fidarsi e si appoggiò a Mynte, che lo accolse in un abbraccio.    

   Insieme si sedettero sulla neve, non sentivano il gelo, la loro natura sovrannaturale li rendeva estranei al tempo e alla temperatura. Lui era ipnotizzato da quegli occhi e una profonda calma si era ormai fatta strada nel suo cuore. E poggiò la testa sul suo grembo.  Mynte delicatamente gli carezzava le spalle e quando percepì che lui si stava completamente rilassando, prese tutto il suo coraggio e, dopo un lungo e profondo respiro, iniziò a raccontare:    
  “So che tutto ti sembrerà incredibile, ma ti prego, ascoltami. Potrai poi decidere se credermi o meno, ma ora fammi raccontare. Io non sono una creatura umana. La mia nascita risale a più di 700 anni fa e fu durante una cerimonia tenuta in Giappone, che solennizzava la primavera. Il tutto si svolse in un campo coltivato a menta e il nome che scelsero per me fu Mynte. Il mio compito consiste nell’equilibrare l’energia del mondo vegetale, mantenendo armonia tra la natura e gli esseri umani. Mi venne affidato un compagno di viaggio con il quale svolgere la missione e il luogo a cui fummo destinati fu qui in Danimarca.”   
    Halvor, che ascoltava attentamente, contrasse nuovamente le spalle e, alzandosi bruscamente in piedi, incominciò a ridere.
    “Sì e poi vi hanno dato anche una bacchetta magica? Ahahah.”
  Ma un odore di menta lo avvolse e quando la riguardò negli occhi non poté fare altro che sedersi nuovamente e ritornare nel caldo abbraccio di Mynte.  
   “Anche tu Halvor sei una creatura speciale, possiedi dei poteri che ignori e che dovrai imparare a controllare. Io, io…”
    E, mentre parlava, lo strinse più forte a sé.        
    “Io ho dovuto abbandonarti”, abbassando il tono della voce ripeté:  
    “Ho dovuto abbandonarti”, e quasi sussurrando disse:
    “Perdonami.”
    Il corpo di Halvor si irrigidì, di nuovo fu preda della rabbia, della furia cieca, nuvole grigie comparvero nel cielo, ma questa volta Mynte non si fece cogliere di sorpresa e passò il palmo della mano destra sulla fronte aggrottata di Halvor, mentre con la mano sinistra gli coprì la bocca, che stava spalancandosi per urlare.  

   “Perdonami”, ripeté.
  Halvor si passò una mano fra i capelli, cercò l’elastico con cui li legava senza trovarlo, si mise seduto con la schiena ben diritta di fronte a Mynte e la guardò nuovamente negli occhi, trovandovi la stessa profondità che lo aveva ipnotizzato le volte precedenti e si acquietò.         
  “Ho la necessità di capire. Il tuo aspetto di giovane donna non mi fa pensare a te come a una madre, ma nei tuoi occhi e nel tuo tocco sento un profondo e caldo legame. Continua a raccontare.”           
 

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   “Sono destinata a rimanere per sempre giovane. Incontrai tuo padre, che mi fece conoscere la gioia dell’essere innamorati. Sapevo che non avrei dovuto infrangere le regole dettate agli esseri come me, ma la sua gentilezza mi conquistò ed era bello per una volta sentirsi così amata. Quando rimasi incinta mi sorpresi, ma fui all’apice della felicità. Fu il mio guardiano Whasi a spiegarmi che non avrei mai potuto restare al tuo fianco perché i nostri poteri si sarebbero sommati, creando vortici di distruzione. Per questo ho dovuto abbandonarti. Ed ho lasciato anche tuo padre, perché lui non conosce la mia vera natura, io che non invecchio, i miei riti, i miei intrugli… non ho avuto il coraggio di dirglielo. Ho preferito lasciarlo senza una parola, solo una breve lettera… sono fuggita insieme a Whasi e siamo tornati in Giappone per ricominciare e… dimenticare questa parentesi umana… ma non sono mai riuscita a staccarmi completamente da te. Ho subito usato i miei poteri, ho usato il portale, la fenditura nell'albero, quella dove hai visto la luce, quello mi ha permesso di ritornare qui e, in veste di gufo, ho osservato da sempre la tua vita.”      

   “La mia vita e anche quella di Mathilde, anche lei è tua figlia!”

  “Halvor no, Mathilde è la tua guardiana. Tu hai Mathilde come io ho Whasi. Lei ha il compito di proteggerti, di starti vicina e di suggerirti cosa può essere il meglio per te. I suoi poteri sono molto limitati e sono legati principalmente alla tua protezione.”            

   Gli occhi di Halvor si illuminarono, cominciava a comprendere gli atteggiamenti e le stranezze di Mathilde. 

    “Matildhe una guardiana... la mia guardiana”, ripeteva con lo sguardo oltre lo stagno. Ed ecco subito una nuova domanda: 

    “Ma perché ci hai lasciati a Freja e non a mio padre?”  

   “Freja, già, Freja. Freja è una predestinata. Tuo padre non ce l’avrebbe fatta da solo. Se non vi avessi lasciato io da Freja, vi avrebbe lasciato Svend da lei. Tuo padre si chiama Svend. A modo suo anche lui non vi ha abbandonati. Io lo so: vi osservavo durante i miei voli...”

    Halvor si alzò in piedi, per un attimo Mynte pensò che sarebbe di nuovo comparsa la rabbia, invece lui scosse la testa. Di nuovo si passò una mano fra i capelli e con le dita li pettinò, come a volere rendere lisci quei riccioli ribelli, che gli carezzavano il collo. La fronte leggermente corrugata. 

   “Non mi sento bene, mi gira la testa, ma ti credo, sì, ti credo, ma per favore voglio che tu mi ripeta tutto, voglio comprendere meglio.”           

   Così dicendo, le si avvicinò e, come era solito fare con i clienti che gli chiedevano un suggerimento per l’acquisto di un libro, chiuse gli occhi e annusò l’aria fra loro, poi di nuovo la guardò negli occhi, le prese una mano e la fece alzare.  Una di fronte all’altro: madre e figlio, adulti entrambi. Lei tenendogli la mano, sorridendogli, ricominciò a raccontare… 

    Il cielo azzurro riflesso nello stagno, il bianco immacolato della neve, lei che parlava mentre un raggio di sole attraversava i rami di un abete. Il cielo gradualmente si era schiarito, quasi a sembrare un latte sospeso.     “Ora devo andare. Temo che starti ancora vicino possa provocare delle calamità.”      

    “Sì vai, ma, ritorna, ti aspetterò.”            

   Lei, con piccoli passi leggeri, si allontanò verso il bosco. Lui rimase fermo ad osservarla.      

   Poco dopo, oltre le cime degli alberi, un gufo volteggiò e scomparve nuovamente fra la boscaglia.  Halvor riprese la strada verso la libreria, ora cominciava a sentire freddo.    

  “Devo incontrare mio padre”, pensò, “dobbiamo uscire tutti allo scoperto e confrontarci.”  

   Con portamento fiero, non più timido e impacciato, le spalle dritte, le labbra leggermente increspate da un sorriso, con nelle narici l’odore della menta aumentò il passo.  

   Dal cielo latteo piccole bianche farfalle volteggiarono fino a posarsi: aveva ripreso a nevicare.

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image credits: 1. Lutz Peter, 2. Stefan Keller, 3. Jim Cooper da Pixabay

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