MONICA MAZZANTI
copywriting - redazione testi
corsi di scrittura
Inchiostro di parole
Capitolo 11 - Passo dopo passo la verità
Monica
​
Nevicò tanto. Quando Halvor riprese i sensi, si trovò ricoperto da una coltre di neve, ibernato dentro quello sbigottimento, che lo aveva inghiottito. A fatica si mise in piedi e, arrancando, si incamminò verso la libreria. Era quasi notte. I piedi sprofondavano nella neve ormai alta; il corpo ricurvo, come a sopportare tutto il peso di quello sforzo. Appena varcato la porta, si scrollò la neve di dosso, si cambiò velocemente gli abiti e, scosso dai brividi della febbre, si accasciò nel letto in uno stato di trance. Cadde in un sonno profondo.
L’apparizione di quella donna, lì nel suo amato bosco. Quelle mani, quelle mani su di lui, che gli toccano il volto.
Il gufo la donna la madre la madre la donna il gufo.
Quegli occhi inquietanti, tra il gelo e la passione, tra l’ardore della fiamma e l’immensità delle acque, occhi, al tempo stesso, sconvolgenti e amorevoli.
Il vortice di immagini frullava nella sua testa. Ora, come in fotogrammi, vedeva scene della sua vita sfilare in un estenuante girotondo. Freja, l’amata Freja, e lui bambino. Lei che lo culla, lo prende per mano, lo imbocca in un divertente gioco di smorfie e sberleffi. Le sue mani, le sue mani su di lui, che lo vestono, lo accarezzano, lo conducono. Le sue belle mani dalle lunghe dita affusolate, e quegli strani disegni che le incorniciano.

Si svegliò di soprassalto. Un furente dolore alla testa lo attanagliava. Accese l’abat-jour e bevve un sorso d’acqua dal bicchiere posto sul comodino.
Si coricò nuovamente. Richiuse gli occhi.
I disegni, i simboli, le linee continuavano a scorrergli davanti, ininterrotti, anche da sveglio. Ecco da dove venivano. Quei disegni lo avevano accompagnato per tutta la sua infanzia. Disegni e linee. Linee e disegni. Più volte visti, ma solo percepiti, come può succedere a un bambino. Mai ci aveva pensato. Era stata Freja, con quella sua strana domanda, a far riemergere il ricordo, svanito nel suo più profondo inconscio.
Doveva vederla. Doveva parlarle.
Mancava ancora un’ora all’alba. Cercò di mettere insieme le forze e si alzò. Passò davanti allo specchio e, intravedendosi, si accorse che i suoi lunghi capelli argentei si erano tutti arruffati in onde bizzarre. Ritornò davanti allo specchio e cercò di lisciarli con le dita. Nulla. Più li tirava, più si imbizzarrivano.
Come era possibile? Mai gli era successo in 25 anni di vita. Al diavolo i capelli.
Li raccolse nella consueta coda. E, pronta, la sua mente ritornò al sogno, a quella strana donna e a Freja. Doveva solo calmarsi e pazientare. Era sicuro che Freja prima o poi sarebbe apparsa.
“Ehi, che è successo, che hai fatto ai capelli?”
Con queste parole, accompagnate da una strampalata espressione, Freja gli diede il buongiorno, allungandogli un bicchiere di carta, contenente un caffè macchiato.
“Oggi bypassiamo il tè. E’ ancora tiepido, bevilo prima che si raffreddi del tutto”.
Accigliato, senza risponderle, Halvor allungò la mano ma, nel prendere il bicchiere, lo sguardo cadde, inevitabile, sulle sue dita. Un fremito di emozione lo pervase e -splash- il bicchiere rimbalzò sul pavimento, spruzzando tutto intorno il suo scuro contenuto. Entrambi si chinarono imbarazzati. Halvor, d’istinto, le prese una mano e la fermò con forza. La suora, sorpresa, fece per ritirarla, ma lui la strinse ancora più forte.
“Sei tu che devi dirmi cosa vogliono dire i tuoi tatuaggi? Dimmelo! Sei tu che devi a me una risposta."
Freja rimase interdetta.
“Non so, non so”, riuscì a mormorare, “li feci ancora ragazzina, è passato tanto tempo…”
“Ma, davvero, non ti sei accorta della somiglianza coi miei disegni? Freja cosa mi stai nascondendo?”
Guardò più intensamente e, solo allora, notò anche la strana forma del gufo.
“E questo, che cazzo vuol dire? Questo disegno qua?”
Freja scosse la testa. Entrambi si alzarono in piedi. Ora si fronteggiavano. Un forte aroma di menta pervadeva l’aria.
“Ti giuro, Halvor, non lo so. Ieri, mentre facevo le pulizie, mi sono fatta la stessa domanda. Solo per caso il mio sguardo è caduto proprio su quella forma, ero così incredula, che sono venuta da te a chiederti se i disegni avessero un significato.”

Le parole di Halvor arrivarono come proiettili, come una scarica di mitragliatrice. Mai lo aveva sentito urlare, mai aveva alzato la voce in quel modo.
“Lo sai tu il significato! Questi sono i tuoi tatuaggi, non i miei! Stanotte ti ho sognata, mi sono apparse le tue mani. E solo quando mi sono svegliato ho capito da dove era arrivata la mia ispirazione, arrivava da lì, non era venuta dal nulla. Tu mi sei sempre stata vicina, sei una seconda madre per me! Come hai potuto farmi questo, come?”
“Farti cosa? Calmati Halvor, calmati!”
Freja allungò un braccio verso di lui, come per fermare la sua ira. Ma Halvor la scansò, per poi spingerla con forza contro gli scaffali.
Freja allora capì che la via-del-non-ritorno era intrapresa, non poteva più tergiversare, doveva a Halvor tutte le spiegazioni del caso, qualsiasi fosse la conseguenza.
“Tutto quello che posso dirti dei tatuaggi è quello che io stessa so. Per me altro non erano che un patto-di-sangue-virtuale con i miei amici dell’adolescenza. Tutti facemmo gli stessi tatuaggi. Ma quel giorno, sulla via del ritorno, avemmo un incidente in auto. Morirono tutti. Tutti tranne me. Fui l’unica sopravvissuta. Un miracolo. Lo stato di shock perdurò mesi. Entrai in una sorta di negazione. Fu padre Paolo a salvarmi. Da lì la mia decisione di cambiare totalmente vita e prendere i voti.”
Freja fecce una breve pausa, poi continuò:
“Non so il significato di quei segni, davvero, ce li fece un famoso tatuatore dell’epoca, Benedik Lund, che stava fuori Copenaghen. Ho anche pensato di andare a cercarlo… chissà se è ancora vivo… se lo è, sarà molto vecchio.”
Halvor sembrava interdetto, ma riuscì a commentare:
“La so, la so la storia… un po’ se ne è parlato in casa, di tanto in tanto, anche se non nei particolari…”
“Sai anche che tu e Mathilde siete stati trovati da me nella ruota degli esposti. Questo non ve lo abbiamo mai taciuto. Io non potevo tenervi, così feci di tutto per farvi adottatore da Inge e Ole, la famiglia migliore che avreste mai potuto avere. Ma c’è dell’altro…”
Freja fece una pausa, sospirò profondamente, e continuò:
“Inge ha trovato una lettera qua nella libreria… tu ne sai qualcosa?”
“Che lettera, che lettera?” chiese Halvor fremendo.
“Una strana lettera che parla di bambini abbandonati… Per lei è stato facile ricollegarla a voi perché porta una data: 27 aprile 1996, il giorno dell’abbandono. È venuta da me a chiedere spiegazioni, ma… ma io non sapevo della lettera, ma… ecco, io ho un fratello! L’ho rivisto due settimane fa, dopo 25 anni dalla sua scomparsa. Quando se ne andò aveva solo 16 anni, era un ragazzo con molti problemi. Mi è apparso come un fantasma! Ho stentato a riconoscerlo dopo tanti anni.”
Si fermò alcuni secondi, tutto taceva, un silenzio di tomba.
“Lui è... tuo padre.”
Halvor era rimasto impietrito, come mummificato nell’istante. Non un battito di ciglia, la sua espressione sembrava scolpita nella roccia, senza lasciar trapelare emozione alcuna, se non un sentore di oltretomba. Freja ne ebbe timore. Ma continuò:
“… è una storia pazzesca, della quale anche io non so… non so tante cose… ma, quella lettera, lui mi ha detto la scrisse tua madre, prima di abbandonarvi e scappare. Lui la trovò e la nascose dentro a un libro nella tua libreria… perché quella verità fosse qui conservata… come una sorta di reliquia. Io questo non lo sapevo, sapevo, però, ciò che non ho mai detto a nessuno, che erano stati loro ad abbandonarvi… Questo signore, tu… tu… lo conosci… è quello strano individuo che viene ogni anno.”
Nella stessa esatta maniera, come un ricalco d’autore, si ripeté la stessa esatta scena del giorno prima.
Halvor si portò le mani alle orecchie e cominciò ad urlare. Un urlo muto per la verità, solo la sua bocca era spalancata, un mulinello d’aria si sollevò da terra e, alzandosi, si trasformò in un vortice impetuoso. Le altalene, alle quali erano bizzarramente appoggiati i libri, iniziarono a muoversi sempre più forte, sempre più forte, cigolavano e dondolavano avanti e indietro, indietro e avanti, come fossero sospinte dalle urla di una tempesta.
Ma nessuno dei libri magicamente cadeva.
Improvvisa arrivò una saetta e squarciò uno degli alti scaffali della libreria, e allora sì, come proiettili, i libri furono sparati in ogni dove. Il cielo, che arrivava dalle vetrate, da azzurro che era, sprofondò nell’indaco più acceso e, da quell’indaco, nella tenebra più cupa. Fu allora che, come per incanto, suor Freja venne catapultata verso quel cielo denso, e lì rimase, come a mezz’aria, flottante.
Fu allora che si udì il bubolare, sì, il bubolare… quel suono ora aveva un senso, Halvor ne colse il significato e, all’impazzata, corse nel bosco.
​
​
image credits: 1. Comfreak, 2. Angeles Balaguer, 3. Jills da Pixabay
​