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Naming

E tu come ti chiami?

l'importanza del giusto nome

Ricordate lo spot televisivo in cui un Sylvester Stallone, a guisa di Rambo, irrompeva in un salone gremito e salvava gli astanti dall’attacco di un gruppo di malviventi? Scampato il pericolo, una bella ragazza si affrettava a domandare all’eroe: “Come ti chiami?” “Bubi”, rispondeva Stallone… infrangendo in quell’attimo, tra lo scherno generale, tutto il suo potere seduttivo. Così decantava la morale:

 

“Certo è che il nome ha la sua importanza… il nome fa la differenza!”

 

Dio nella Genesi crea e - subito - denomina. È con il nome che la “cosa” acquista vita, diviene oggetto identificabile e compartecipe.

 

               “E diede il nome di giorno alla luce e di notte alle tenebre […] chiamò il suolo

                                                     terra e la massa delle acque mare.”

 

Il nome porta con sé tutta la sua storia: distingue, spesso descrive, comunque evoca: è l’archetipo di un comportamento. Ciò che non ha nome è trascurabile, si dimentica, si omette. Non è degno di essere ricordato… di essere nominato. Ulisse nell’Odissea beffa Polifemo negandogli il suo nome, dicendo di chiamarsi Nessuno, e solo così riesce a liberare sé e i suoi compagni dalla trappola tesagli del mostro.

 

Chi per me, notò in un canile quello che sarebbe diventato il mio cane solo per il suo nome, scritto sulla lavagnetta fuori dal box. Infatti, il cane era totalmente anaffettivo e passava le sue giornate acciambellato nella cuccia senza avere alcuna interazione con gli altri.  Tanto potere ha avuto quel nome da cambiare a Skipper la sua vita… e a me la mia.

 

Tutto può evolvere, il nome no. Il nome te lo porti addosso per la vita, è una sorta di timbro che ti contraddistingue. Tempo fa la sentenza della Corte d’Appello del Tribunale di Genova che considerò illegittimo il nome Venerdì, scelto per il pargolo da una coppia di genitori.

 

  ‹‹… è vietato imporre al bambino nomi ridicoli o vergognosi", indi evitare "situazioni discriminanti e difficoltà di inserimento della persona nel contesto sociale".››

 

Già i cognomi fanno la loro parte, difendiamoci almeno dai nomi e… dai genitori!

 

Ma ecco che arriva Internet in aiuto e ci riscatta dai brutti nomi. Caterve di nickname da indossare per nasconderci, di volta in volta, dietro la maschera di turno e, finalmente, diventiamo personaggi di noi stessi con l’autorità estrema di autobattezzarci come più ci piace: PiskellettaStilosa, Minamoto Kobayashi, Karl Mirx, Toktokchisei e chi più ne ha ne metta…

 

… e invece, i soprannomi che ci danno gli altri? A volte lusinghieri, altre, il più delle volte, no! Ci risiamo: vittime o carnefici, ci troviamo a infierire o a subire un nome. Prendendo generalmente spunto da qualche caratteristica individuale del tutto peculiare, i nickname sono, infatti, i veri e propri denominatori di una persona.

Un azzeccato spot di Fastweb, protagonista Valentino Rossi, era tutto imperniato sul gioco di parole che scaturiva proprio dall’ironico nome Va-lentino, che automaticamente si estendeva alla tartaruga amuleto Va-lentina, in contrapposizione sia alla velocità su pista di Rossi che a quella della navigazione in rete con fibra ottica, contrassegnandone però tranquillità e sicurezza. 

Brand name: partire col piede giusto

 

Quando, invece di battezzare nostro figlio o il nostro cane, dobbiamo denominare un prodotto, un servizio, un’azienda, entriamo nel campo del brand naming. Le regole di prassi ci sono ma, come spesso accade, prendere strade divergenti può essere una scelta felice. 

I nomi dei prodotti dovrebbero essere corti, non più di tre sillabe. Ma quanti nome lunghi si sono rivelati di successo! Non è vero che sono difficilmente memorizzabili, come intendono i più classici manuali di comunicazione. Al contrario, trovo che più parole insieme possano essere maggiormente intelligibili, sicuramente più intriganti, capaci di instaurare una strategia di marketing diversamente articolata e, come farebbe uno slogan, acquisire un loro ritmo trascinante. Nei banchi dei supermercati appaiono prodotti come 4 Salti in Padella, La Valle degli Orti, L’Antica Gelateria del Corso: nomi capaci di contraddistinguersi ed essere ricordati a suon di parole.

Tra il XIX il XX secolo, per quanto riguardava le aziende, non ci si poneva il problema di trovare il nome giusto per il business di famiglia e si ricorreva al patronimico. Era infatti diffusa l’usanza di dare alla ditta il nome del suo fondatore, che coincideva appunto con quello della famiglia. Basti pensare a nomi altisonanti come Barilla, Ferrari, Pirelli.

 

Anche le sigle hanno avuto un ruolo predominante, cito semplicemente FIAT (Fabbrica Italiana Automobili Torino), diventata emblema dell’industria italiana.

Ci sono poi i nomi descrittivi e, tra di essi, si trovano intere categorie afflitte dalla tetraggine assoluta. Nel campo dell’editoria e dell’informatica, solo per fare un paio di esempi, la lista è infinita: Brava Casa, Casaviva, Cose di casa, Casa facile ecc., per non citare la miriade di net, bit, info, data, che regna incontrastata. Paradossalmente, anche le agenzie pubblicitarie più famose si trincerano dietro brand name tutt’altro che creativi, prendendo infatti il nome dai loro stessi fondatori: Armando Testa, Saatchi & Saacthi, Ogilvy, Young & Rubicam ecc.

 

Quando al nome descrittivo si aggiunge una vibrazione in più, si fa maggiormente interessante e diventa degno di essere ricordato, proprio per le associazioni più o meno felici che vengono create. Spesso si tratta di parole-valigia, vale a dire, parole inventate contenenti due significati in un solo vocabolo: Vitasnella, Estathè, Orogel (oro e gelo), Glicemille (glicerina e mille), Ciocorì (cioccolato e riso), Swatch (Swiss e watch) ecc.

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Altre volte, si opta più semplicemente per un nome arbitrario o inventato ex-novo, aggirando così anche spiacevoli e, spesso incombenti, ostacoli legali causati da omonimie. Cosa ha a che fare una mela (Apple) con un computer o un pinguino (Penguin) con un libro? Oppure, basti a pensare a nomi che non hanno uno specifico significato come Kimbo, Sony, Imetec, Kodak.

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Nel campo delle autovetture, dopo aver passato in rassegna sigle e numeri per anni e anni, si è iniziato a battezzare le macchine con nomi che finivano necessariamente con A, proprio per quel tacito binomio che identifica la macchina con la donna. Ed ecco la Panda, la Brava, la Croma, la Delta. Con l’arrivo delle briose straniere come Clio, Twingo, Yaris, anche gli italiani si aprono a nomi più audaci... e vai con Thesis, Phedra, QUBO ecc.

Negli anni ’80 la Ferrari (anche lei di soli numeri e sigle munita… ma lei la perdoniamo, tanto non ha bisogno di un bel nome!) ha un guizzo felice ed esce con quello che – personalmente - ritengo il più bel nome mai dato a un’autovettura: testarossa. La pazza, la diversa, l’estrosa. Quel nome, racchiude tutto il marchio.

Quando il successo di una marca è tale da sbaragliare il mercato, diventa così famosa, che finisce per diventare un nome comune identificabile con uno specifico prodotto. Quando vogliamo un fazzolettino di carta, chiediamo un Kleenex; e come si chiama la carta assorbente da cucina, se non Scottex? Il nastro adesivo è lo Scotch, un tampone intimo un Tampax, un fuoristrada una Jeep, e la biro la biro1, chi mai direbbe: “Dov’è la mia penna a sfera?"

Occhio ai passi falsi!

 

Quando, dunque, ci troviamo di fronte al dilemma di battezzare un qualsivoglia prodotto, servizio o azienda, a quali risorse possiamo ricorrere?

Innanzi tutto, dobbiamo porci alcune domande imprescindibili: di cosa si tratta? Quale è il suo target? Quali nomi hanno già scelto i concorrenti? Verrà venduto anche all’estero?

Il nome, oltre ad essere bello, dovrà riuscire a differenziare il prodotto sul mercato, dovrà riuscire ad aggiungere quel qualcosa in più che il prodotto concorrente non ha, magari identificandosi proprio con la sua caratteristica peculiare, capace di impartirgli una specifica personalità attraverso lo stesso nome.  

Nelle agenzie pubblicitarie si passa al cruciale processo del brainstorning, in cui si dà libero sfogo all’immaginazione, sbarazzandosi di qualsiasi tipo di inibizione. Nulla si scarta: anche dall’input più futile può nascere l’idea vincente.

 

Ma attenzione ai passi falsi, soprattutto, se ci inoltriamo in un terreno sconosciuto, vale a dire, quello dei mercati stranieri, diversi dal nostro non solo culturalmente ma anche linguisticamente!

 

In Francia la Toyota ha dovuto ribattezzare il suo modello MR2 con Coupe MR, visto che quel duex non creava un'assonanza proprio felice; la Mitsubishi ha invece rinominato Montero il fuoristrada Pajero, termine idiomatico spagnolo che significa “colui che si masturba”; Maalox non è proprio un bel nome per un farmaco contro il mal di stomaco; Estée Lauder ha creato un fondotinta dall’effervescente nome Country Mist (nebbiolina di campagna), che sarebbe meglio non producesse alcuna effervescenza in Germania, dove significa “letame”; nella Svizzera tedesca si possono acquistare le tisane Sidroga, che dovrebbero sicuramente cambiare nome in Italia; e cosa dire delle mutande Maerdifu...2

... e che dire dello sponsor del Bologna calcio CAZOO

La Croce Rossa, a livello internazionale, era diventata la Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa. Infatti, all’emblema della croce era stata aggiunta la mezza luna islamica perché la croce era considerata oltraggiosa nei paesi arabi, in quanto riconosciuta come simbolo dei crociati. Israele, dal canto suo, reclamava l’uso della stella di Davide. Si è arrivati così a una sorta di compromesso: il cristallo rosso, un rombo all'interno del quale possono essere inseriti i simboli locali o nessun simbolo.

 

Spesso il nome di una marca diventa riduttivo perché l’azienda si amplia e inizia a produrre anche altri articoli. È successo a Calzedonia, che ora commercializza anche costumi da bagno e indumenti intimi, così come al detersivo Perlana, tanto da aver dovuto promuovere campagne con lo slogan “non solo per lana”. Il Club Méditerranée ha dovuto cambiare l’originario nome nel meno identificabile Club Med, nel momento in cui il suo successo ha oltrepassato le frontiere del Mediterraneo. 

Siamo ciò che compriamo!

La marca rappresenta un’identità. Gli snob non possono fare a meno di griffe d’autore: ciò che comprano vale più per il valore simbolico che per utilità o bellezza. La marca rassicura, comunica un aspetto della personalità, di come “si intende la vita”. Fa sentire alla moda o, addirittura, ci rappresenta iconograficamente come sportivi, raffinati, giovanili, ecologicamente corretti. I giovani sono le categorie più affette dal griffato, proprio per il loro bisogno di appartenenza a un gruppo. Su Internet nascono addirittura community di aficionado a una particolare marca.

L’esibizione del logo diventa particolarmente evidente nell’abbigliamento. Tutto ebbe inizio nei lontani anni ’30, quando il tennista René Lacoste lanciò una linea di magliette con ricamato un piccolo coccodrillo verde. Da allora, il brand name non è più nascosto dentro all’indumento, ma viene identificato con un logo o un semplice emblema da esibire più o meno ostentatamente.

Talvolta, l’attaccamento a un marca coinvolge aspetti più sottilmente emotivi. Campagne pubblicitarie particolarmente azzeccate agiscono su meccanismi psicologici reconditi e, nel tempo, acquisiscono grande spessore e visibilità. Barilla non ha mai abbandonato la felicissima campagna che, dagli anni ’70, la vede portatrice di sani valori domestici. Sotto lo slogan “Dove c’è Barilla, c’è casa” o il marchio Mulino Bianco scorrono rassicuranti storie domestiche da toni fiabeschi e tinte pastello. La marca diventa più di un semplice nome e acquista un’identità prontamente intelligibile.   

Anche la scienza avvalora questa tesi. Studi di neuromarketing hanno comprovato come la pubblicità e il marketing siano in grado di influenzare i nostri gusti. Durante un esperimento clinico al Baylor College of Medicine di Houston sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale i cervelli di consumatori sia di Coca Cola che di Pepsi.  Quando le due bibite venivano offerte senza etichetta, non risultavano sostanziali preferenze verso una delle due marche. Quando, invece, venivano bevute entrambe, ma etichettate esclusivamente come Coca Cola, veniva registrata un’attività cerebrale più intensa non nell’area del gusto, ma in quella della corteccia prefrontale e dell’ippocampo, parti del cervello che condizionano il comportamento in base alle emozioni. Nell’annosa diatriba “Coca o Pepsi?”, si è avuta la riprova che la Coca Cola è più amata e più venduta della diretta concorrente.

Abracadabra: il potere evocativo dei suoni

Come in formule magiche, intrecci di sillabe e parole danno vita agli incantesimi dell’advertising. I suoni delle parole sono potentissimi mezzi da sfruttare per ottenere particolari risultati. 

Il loro potere evocativo è enorme e va attentamente valutato. Si entra così nel campo della psicolinguistica, vero e proprio ramo della comunicazione.

 

Le strutture ripetitive, specialmente sillabiche, propongono spesso un linguaggio denigratorio: babbeo, cicisbeo, quacquaraquà, fanfarone ecc.

 

Tra le strutture ripetitive, l’alternanza vocalica/consonantica propone l’idea di movimenti iterativi: zigzagare, ghirigoro, ninna nanna, ping pong ecc. Nella pubblicità, basti pensare a Tic Tac, Spic & Span o Kit Kat.

Se a ripetersi sono le stesse parole, avremo un’intensificazione del messaggio. Spesso questo tipo di linguaggio è usato nelle favole o nel linguaggio infantile: lontano lontano, lemme lemme, zitto zitto, mai e poi mai ecc.

 

L’avverbio è un altro ottimo rafforzativo. In un’espressione come “smentire categoricamente”, la lunghezza stessa dell’avverbio rafforza la determinazione; nel noto motto alfieriano “volli, sempre volli, fortissimamente volli” gli avverbi creano un vero e proprio crescendo.

L’abbreviazione toglie invece magniloquenza e aggiunge un tocco di familiarità e semplicità. Si accorcia infatti anche la distanza psicologica tra colui che parla e il suo interlocutore. Entriamo, per esempio, nel regno delle abbreviazioni dei nomi propri: Franci > Fancesco, Ale > Alessandra, Bob > Robert ecc.
In inglese molte parole di uso corrente, proprio per acquisita familiarità,  derivano dall’abbreviazione del nome comune: biz > business, gym > gymnasium, pub > public house, hi-fi > high fidelty ecc.  
In italiano, basti pensare agli imperativi monosillabici: dà, va’, sta’ ecc. che, proprio per il loro carattere imperativo, annullano la verbosità e implicano l’arroganza del comando.
In campo pubblicitario, cito semplicemente due esempi di abbreviazioni equo distanti, che si pongono sui due lati estremi della denotazione familiare: Pomì e O.P. (la rima è del tutto casuale). Pomì (O così. O Pomì.) è un nome che vuole aggiungere un simpatico tocco di familiarità, quasi a voler suggerire quanto sia facile usarlo in cucina; il ricercato O.P. (Oro Pilla brandy. Confidenzialmente O.P.) accorcia le distanze, ma apre una porta altisonante, dalla quale far entrare il fruitore in pompa magna, quasi a concedersi in esclusiva; si tratta infatti di un brandy non di conserva di pomodoro.

Poi ci sono le onomatopee, che rivestono un enorme potere evocativo. Schweppes: e senti il suono dell’effervescenza; Crunchy: ed è come se sgranocchiassi croccanti cereali; Frio: che freddo che fa!

Le parole straniere le riconosciamo per i suoni tipici della lingua di appartenenza: le inglesi rimangono sempre di grande richiamo come sinonimo di modernità, immediatezza, praticità; le francesi, invece, hanno un alone di fascino e potere seduttivo e, per esempio, si addicono bene a prodotti cosmetici, basti pensare a profumi come J'adore, Poison, Égoïst.

E cosa dire del mistico suono sanscrito om delle religioni orientali. Oltre al significato intrinseco, riassume in una sola sillaba il potere evocativo della meditazione, con vere e proprie vibrazioni capaci di intersecare la mente. 
E il rosario, come si recitava al vespro, non è anch'esso un mantra? 

Oltre alle associazioni sillabiche, le stesse lettere hanno poteri suggestivi già insiti.

 

Tra le vocali, la A è quella che, grazie alla massima apertura della bocca e al rilassamento della lingua, evoca forza o calma. Non a caso è il suono della risata, ahahah. La O è rotonda e giocosa; una parola come bombolone, per esempio, dà la precisa idea della forma tonda. La U è lugubre, la bocca si rattrappisce tutta, come in ululato o buio. La I e la E sono spensierate e vivaci,  basti pensare a tintinnio ed elementare.

 

Fra le consonanti, le occlusive B/P, D/T e G/K esprimono forza e durezza proprio perché esplodono - esempio di imprecazione: puttana; le fricative F, V, S sono tutte vibrazioni, e le parole sembrano scorrere via veloci o addirittura scivolare; le nasali M e N hanno un timbro rassicurante e materno, non a caso le troviamo in parole come parole mamma, nonna, nanna.

 

Voleva fare qualcosa in più che leggere: voleva rimpicciolirsi e strisciare dentro le parole, muoversi tra le lettere, scavare in cerca di segreti nella soffitta di una A, arrampicarsi sui rami di una Y e ascoltarne i sogni, lasciarsi scivolare su una S verso la sua fonte ardente e segreta, entrare in una O e assaporare la pazza lucentezza e lucente pazzia del suo nucleo [...]3


1 Dal nome del suo inventore, l’ungherese Lásló József Bíró.
2 Esempi tratti da Fernando Dogana, Le Parole dell’incanto, Milano, Franco Angeli, 1990.
3 Carolina De Robertis, La bambina nata due volte, Garzanti, MI, 2010: 406.

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